L’effetto Rashomon, o della soggettività della verità

Ognuno di noi fornisce la sua versione dei fatti, e una verità definitiva non esiste o non è così semplice da cercare. Questo, in sintesi, è ciò che viene definito effetto Rashomon, dal nome di un celebre film del regista giapponese Akira Kurosawa.

Nel capolavoro di Kurosawa, i tre protagonisti danno ciascuno una versione apparentemente oggettiva della dinamica di un omicidio che purtroppo è in contrasto con la descrizione, altrettanto oggettiva, fornita dagli altri due. Il film non offre una risposta conclusiva a quale sia la verità.

Le condizioni per avere l’effetto Rashomon

Nell’effetto Rashomon, in sintesi, ogni testimone fornisce una sua versione perfettamente plausibile ma in contrasto con quella degli altri testimoni. Ciò può avvenire in perfetta buona fede, ed è legato dal potere della nostra mente di distorcere i ricordi per i motivi più diversi, dal bisogno inconsapevole di autogiustificarsi al concorso dei numerosi bias cognitivi che costruiscono la nostra percezione della realtà.

Perché si abbia l’effetto Rashomon, ricordiamolo, è dunque necessaria l’assenza di prove che corroborano una particolare versione di ciò che è accaduto e la presenza di una pressione sociale sul testimone.

Questo è il motivo per cui in molti film l’avvocato di parte contesta a chi svolge un interrogatorio la famosa obiezione: “Vostro onore, si sta tentando di condizionare o fare pressione sul mio cliente”. E in effetti, almeno nell’ordinamento italiano, la prova testimoniale viene ammessa con delle limitazioni (art. 2721-2726 cc).

Giornalismo e scienze sociali

Nella letteratura accademica, l’effetto Rashomon è stato impiegato nel giornalismo, in sociologia e nelle scienze politiche per spiegare determinati comportamenti dei governi o dei media, ad esempio nel caso della repressione del movimento delle pantere nere (Christian Davenport, Media bias, perspective, and state repression : The Black Panther Party, Cambridge ; New York : Cambridge University Press, 2010).

In questo tipo di contesti, l’effetto Rashomon potrebbe spiegare la frequente situazione in cui sembra che tutti abbiano ragione e non si riesce a ricostruire un vero e proprio bene o male, sfilacciandosi la realtà in tanti filoni grigi tutti ugualmente possibili.

Il ruolo della memoria nell’effetto Rashomon

Ma da dove deriva questa tendenza della nostra mente a inventare la propria versione dei fatti? Una possibile spiegazione dell’effetto Rashomon potrebbe risiedere nei meccanismi di funzionamento della memoria: tendiamo fatalmente a selezionare non solo quello che percepiamo, ma anche quello che ricordiamo, tralasciando involontariamente parecchi dettagli.

Il neuroscienziato Antonio Damasio ha acutamente osservato che il nostro cervello non immagazzina dei dati, ma attivamente li crea e costruisce sotto forma di ricordi ogni volta, deformando e modificando la realtà come farebbe un abile pittore sulla tela, citando un celebre aforisma buddista. Dopo questo chiarimento, l’effetto Rashomon non dovrebbe più sorprenderci.

Efetto Rashomon e intelligenza artificiale

Le scienze umane non sono, tuttavia, le uniche a soffrire per via dell’effetto Rashomon: questo effetto si ha pure in ambito scientifico e tecnologico, in quanto un insieme di dati o informazioni può essere suscettibile di interpretazioni differenti e tutte egualmente plausibili, portando, in sintesi, a interpretazioni opposte e a verità multiple.

La possibilità che i dati possano portare a molteplici modelli tutti egualmente validi ha ovviamente importanti implicazioni per il machine learning e l’intelligenza artificiale. Per quanto sia possibile mitigarne l’effetto con tecniche di riduzione della ridondanza, secondo gli scienziati Cynthia Rudin e Leo Breiman i ricercatori e tecnici dovrebbero sempre tenerlo a mente e prendere i dati con prudenza.

Per dirla con Pirandello, che in tema di verità la sapeva lunga, l’effetto Rashomon ci ricorda che: “Io sono colei che mi si crede” (Così è se vi pare), che la verità è cioè spesso nient’altro che una narrazione, e che non basta avere dei dati e un modello che sembra suffragarli, essendo il cammino della scienza molto più lungo, insicuro e incerto.

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Autore: Marco La Rosa

Sono un web content writer, web designer e esperto di SEO e UX design. Ho scritto il libro Neurocopywriting, edito da Hoepli, dedicato all'applicazione delle neuroscienze alla comunicazione.

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