L’immedesimazione nel personaggio di un romanzo, pièce teatrale o film (immedesimazione narrativa) avviene perché lo identifichiamo come un membro della nostra famiglia. Questa è la conclusione a cui giungono P.J.Gulino e C. Shears nel loro libro: The Science of Screenwriting: The Neuroscience Behind Storytelling Strategies.
I due autori partono dalla natura di animale sociale dell’uomo, in particolare dalla sua predisposizione a prendersi cura della prole e a creare solidi legami affettivi con i familiari e che avrebbe specifiche localizzazioni neuronali.
Il cervello funzionerebbe nel senso di associare a questi legami il rilascio di endorfine e altri ormoni che danno un senso di benessere, in modo da collegare saldamente i familiari (e la loro cura) al concetto di felicità.
E del resto, è dimostrato che ascoltare storie crea il rilascio di ossitocina e altri ormoni legati agli affetti e all’amore.
Ma cosa c’entrano i parenti con l’immedesimazione narrativa? Semplicemente, la capacità umana di creare legami affettivi si è estesa per ragioni evolutive ben oltre la famiglia per arrivare ad abbracciare tutto il genere umano (e perfino oltre).
Il processo di immedesimazione con un personaggio non sarebbe quindi altro che la trasformazione inconscia che ne fa lo spettatore in un familiare. In sostanza, è come se adottassimo il personaggio in cui ci immedesimiamo.
Non si tratterebbe dunque né di vera immedesimazione né tanto meno di empatia, ma di un fenomeno particolare proprio dell’arte che completa il trasporto narrativo, quella particolare sensazione di viaggiare dentro la storia che tutti noi proviamo quando ci immergiamo in essa.
L’immedesimazione narrativa come processo di apprendimento e di controllo sociale
A livello evolutivo, l’immedesimazione narrativa risponderebbe inoltre a precisi bisogni sociali. Se mi metto nei panni dell’altro, difficilmente li farò del male, e questo è fondamentale quando si vive in un contesto in cui ci sono altre persone.
Ma la funzione principale del processo di immedesimazione nei personaggi principali di un’opera avrebbe più che altro finalità di apprendimento e di tipo cognitivo. Lo spettatore imparerebbe cioè come riconoscere, gestire e vivere le sue emozioni nella vita reale.
Questo avverrebbe attraverso un processo di apprendimento del vissuto e delle strategie (vincenti o perdenti non è importante) tentate dal personaggio per gestire le sue emozioni e le sue vicende.
In conclusione, vivere o creare storie sarebbe il modo più potente del cervello per apprendere, e questo spiegherebbe il motivo per cui passiamo il tempo a inventarne e a figurarci visivamente cosa succederebbe se accadesse questo o quello.
L’importanza della presentazione del personaggio nello storytelling
Quando si scrive una sceneggiatura, l’importante, per i due autori, è saper creare questo particolare legame tra spettatore e personaggio che abbiamo appena descritto e che lo fa riconoscere, appunto, come un familiare.
Questo avviene in maniera inconscia attraverso alcuni segnali del personaggio che ne anticipano le future azioni e caratteristiche e che lo spettatore riconosce perché a lui familiari.
Se inizio una scena con un uomo che scappa inseguito da due poliziotti, saprò immediatamente e mi aspetterò che il personaggio abbia problemi con la giustizia e l’autorità, mentre la scena di una donna che tiene in braccio un bambino crea subito l’identificazione con il ruolo di mamma.
Una volta creato questo legame, lo spettatore comincia subito a scommettere se il personaggio ce la farà a uscire dal problema in cui si trova, e questo crea suspence e tensione narrativa.
Dopotutto, il cervello è fatto per sopravvivere, e il premio che ci aspettiamo dalla storia è appunto imparare qualcosa di nuovo per restare al mondo.
Lo storytelling può anche essere senza eroi
Tuttavia, non è necessario che il personaggio venga presentato come avente speciali caratteristiche o con delle caratteristiche simili alle nostre.
L’immedesimazione narrativa si crea infatti anche con gli antieroi, quei caratteri che mancano di quegli attributi (forza, coraggio, bellezza) che fanno degli eroi dei sicuri vincenti.
In conclusione, i tratti del personaggio, se è simile o meno a noi, se ha più o meno certi attributi di forza, non contano (tuttavia, non mancano i punti di vista contrastanti, come mostra questo studio riportato da Focus sull’empatia); quello che importa è che si creai il processo di adozione affettiva del personaggio stesso e la scommessa se ce la farà o meno a uscire dalla sua situazione (tensione narrativa).
Il punto di forza di questa teoria è quindi riuscire a spiegare il motivo per cui si creano processi di immedesimazione anche con personaggi che non c’entrano niente con noi perché distanti etnicamente, culturalmente o socialmente, con gli antieroi e i perdenti e addirittura coi cattivi, insomma con qualsiasi tipo di carattere drammatico.
Un altro punto di forza è quello di valorizzare lo storytelling come strumento di simulazione della realtà per la preparazione alla vita, ossia la sua funzione educativa, anche quando lo scopo dell’opera è solamente far divertire.
E questo senza tralasciare la funzione catartica che già aveva individuato Aristotele nell’arte, ossia far emergere, elaborare e liberare le emozioni latenti nello spettatore tramite quella vera e propria macchina delle emozioni che è qualsiasi storia ben confezionata.
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Per approfondire
Paul Gulino e Connie Shears, The Science of Screenwriting, The Neuroscience Behind Storytelling Strategies, Bloomsbury Academic, 2018
Levi Dean, recensione al libro: The Science of Screenwriting, su Alphaville: Journal of Film and Screen Media, n.19, 2020