La diatriba sul supposto ruolo dei mass media e in particolare dei film d’azione nel favorire la violenza va avanti ormai da oltre un ventennio, con uno scontro da sempre molto acceso tra chi sostiene la necessità di controlli e censure e chi invece sbandiera la libertà di espressione.
Un esempio recentissimo è la polemica tra chi sostiene misure come il politically correct e chi invece ne nega l’utilità o la liceità, sostenendo che dobbiamo restare liberi di creare i contenuti che più ci piacciono, fossero anche offensivi o vere e proprie istigazioni a comportamenti aggressivi.
Cosa possono insegnarci le neuroscienze e la psicologia su questa complessa tematica? Le ricerche non mancano e affondano le loro radici nel periodo dell’avvento della televisione e delle preoccupazioni che sollevò questo nuovo media di essere una possibile nuova forma di brain-washing.
Apprendimento sociale, film violenti e modellamento
I primi a sostenete che l’esposizione a contenuti con scene di violenza possa generare comportamenti aggressivi furono gli psicologi Albert Bandura (1973) e Leonard Berkowitz (1984) nel quadro della teoria dell’apprendimento sociale.
Secondo questa teoria, i comportamenti violenti verrebbero appresi guardando gli altri compierli o per esperienza diretta. Di conseguenza, l’esposizione a videogiochi o a film violenti è un ottimo metodo per insegnare alle persone a comportarsi e agire in modo aggressivo.
A ciò bisogna aggiungere un effetto di disinibizione legato al fatto che le persone verrebbero abituate dai film violenti a considerare la violenza come qualcosa di normale e consentito (modellamento).
Un altro psicologo, Rowell Huesmann, raffinò e sviluppò le teorie di Bandura e Berkowitz sostenendo che le scene di violenza insegnano ai bambini dei veri e propri schemi comportamentali automatici che si attiverebbero in determinate situazioni (ad esempio tirare un pugno a un altro bambino che ci offende).
In seguito, Berkowtiz modificò la sua teoria, sostenendo che le scene di violenza attivano tramite l’associazione semantica tutta una rete di pensieri ed emozioni latenti nell’individuo di tipo aggressivo che possono facilmente sfociare, prima o poi, nel ricorso alle vie di fatto.
Questo però vuol dire ancorare l’apprendimento alla memoria, ossia alle esperienze passate delle singole persone, valorizzandone l’individualità: esperienze e passati diversi creeranno un terreno che può essere ora fertile ora più difficile per l’apprendimento della violenza e lo sviluppo effettivo di azioni aggressive.
In conclusione, l’apprendimento sociale della violenza attraverso contenuti mediatici non è da solo sufficiente per giustificare il ruolo determinante dei mass media nel determinare i comportamenti violenti. Contano anche i vissuti, il passato, le attitudini e le vicende personali dei singoli individui.
Prove sperimentali a favore e contro
Alcuni esperimenti per provare l’effetto delle scene di violenza sui comportamenti sono stati svolti a partire dagli anni ‘90 (ad esempio da B.J, Bushman, 1998) estendendo l’ambito delle ricerche anche ai videogiochi (Craig A. Anders e Karen E. Dill 2000). In effetti, risulta dimostrata una correlazione tra l’esposizione a film e videogiochi violenti e aumento dei comportamenti aggressivi.
Tuttavia, la complessità dei fattori coinvolti rende difficile giungere a conclusioni definitive. Uno studio del 2013, per esempio, ha invece dimostrato che l’effetto di attivazione delle scene di violenza si ha solamente se viene associato a tratti aggressivi della personalità.
Questo risultato è stato confermato anche da uno studio del 2014 condotto con la tomografia cerebrale a positroni. Per cui ci sarebbero differenze significative anche a livello di metabolismo cerebrale tra il gruppo testato di soggetti che presentano maggiore predisposizione alla violenza.
Anche fattori come l’età, il sesso, la formazione culturale del pubblico, una maggiore o minore capacità di autocontrollo giocano un ruolo.
Altri studi più recenti hanno invece analizzato l’influenza delle narrazioni violente nel campo della propaganda ideologica, scoprendo che in effetti questo tipo di storytelling potrebbe avere un ruolo nel passaggio dalla protesta al terrorismo in determinati contesti organizzativi.
Un altro fattore da considerare è se la violenza è giustificata o gratuita, in quanto le reazioni delle persone cambiano in maniera significativa tra i due casi. La violenza giustificata scatena minori reazioni di repulsione e sgradevolezza rispetto a quella gratuita.
Anche l’immedesimazione svolge un ruolo: nel primo caso il pubblico si potrebbe identificare con chi somministra la violenza, immedesimandosi nel ruolo del vendicatore, mentre nel secondo caso con chi la subisce, ossia immedesimandosi nel ruolo di vittima.
Queste indicazioni possono essere molto utili, per ovvi motivi, a chi scrive o si occupa di storytelling.
Più in generale, le critiche a questi tipi di test sono quelle comuni agli esperimenti di psicologia cognitiva: impossibilità di replicare i risultati ottenuti con altri esperimenti, incapacità di replicare in sede sperimentale le situazioni della vita reale, ottenendo risultati sfalsati, mancata valorizzazione delle differenze tra individui, e tendenza a pubblicare solamente esperimenti che mostrano risultati positivi, sottovalutando quelle che invece non mostrano risultati.
Oggi si tende a vedere la violenza come un fenomeno complesso e sfaccettato caratterizzato da molteplici fattori scatenanti. Il ruolo dei mass media e delle narrazioni (film o libri che siano) come cattivi maestri che ispirerebbero azioni aggressive ne esce dunque ridimensionato, anche se una forma di collegamento tra scene di violenza e comportamenti violenti è innegabile.
Social media e violenza
L’avvento dei social e il forte impatto che hanno dimostrato sui comportamenti collettivi ha riacceso il dibattito sui possibili effetti delle scene di violenza sulle persone, anche a fronte dell’esplosione di fenomeni come il cyberbullismo.
Una differenza tra social media e media tradizionali come la televisione è il ruolo degli algoritmi che stanno dietro ai social. Questi tendono a promuovere e a diffondere i contenuti di maggior successo, e purtroppo le scene di violenza lo sono.
Si ha in sostanza un effetto di amplificazione legato ai nuovi media digitali legato non solo all’effetto premio dell’algoritmo, ma anche alla loro capacità di raggiungere istantaneamente moltissime persone e a un effetto di disinibizione proprio dei contenuti online.
Questo effetto di disinibizione sarebbe legato, secondo lo psicologo John Suler, a diversi fattori: la possibilità di agire in nome anonimo trincerandosi dietro un avatar o un falso profilo, la tendenza a interpretare in modo erroneo le emozioni o le implicazioni dei testi per l’assenza dei meccanismi di comunicazione meta e para verbali della comunicazione reale, il fatto di vivere internet come un gioco dove non accade nulla di serio, l’assenza di figure autoritative che possano fungere da freno e controllo.
Soluzioni: Educazione e Consapevolezza
Per limitare l’influenza dei contenuti violenti sulle persone, l’implementazione di programmi educativi e la promozione dell’alfabetizzazione mediatica sono spesso indicati come possibili strumenti in quanto ritenuti in grado di poter dotare il pubblico dei mezzi necessari per analizzare criticamente i contenuti mediatici.
Ciò favorirebbe una comprensione più profonda, consentendo di discernere tra rappresentazioni fittizie e comportamenti reali.
In conclusione, la relazione tra mass media e violenza è complessa e richiede un approccio bilanciato. I media possono influenzare percezioni e comportamenti, ma sono solo uno dei numerosi fattori in gioco. La consapevolezza, l’educazione e una produzione responsabile dei media contribuiscono a mitigare impatti negativi, promuovendo una convivenza armoniosa tra il mondo mediatico e la società.
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