Basta dire Bias per fare il successo di una campagna pubblicitaria? La risposta è seccamente e decisamente no. Gli esempi di insuccessi clamorosi diventati più o meno celebri di agenzie che credevano di sfruttare i bias sono numerosi, eccovene tre:
Spot “Live For Now” di Pepsi del 2017, in cui la modella Kendall Jenner consegnava una Pepsi a un agente di polizia durante una protesta. Lo spot è stato criticato per aver cooptato il movimento Black Lives Matter e banalizzato le questioni di giustizia sociale strumentalizzandole a finalità commerciali. Sono seguite il ritiro e le inevitabili scuse.
Secondo le dichiarazioni di Pepsi, l’idea era quella di trasmettere un messaggio di pace, unione e comprensione universale. Il bias sfruttato è quello della riprova sociale: mostrando una grande folla che marcia compatta per i suoi diritti, si suggerisce implicitamente l’idea che tutte le persone che credono a determinati valori bevono Pepsi.
Peccato che gli interessati non ci sono cascati, almeno a giudicare dalle proteste.
Spot “Real Beauty” di Dove: nel 2017, Dove ha pubblicato uno spot che mostrava una donna di colore che si toglieva la maglietta per rivelare una donna bianca. L’idea era rendere le donne più sicure. L’annuncio è stato però ampiamente criticato per essere insensibile alla razza e perpetuare stereotipi dannosi. Dove si è scusata e ha rimosso l’annuncio.
Il bias, in questo caso, si chiama: “colourism bias”. Porta a credere che le persone con la pelle più chiara siano in qualche modo migliori o più desiderabili di quelle con la pelle più scura. Si tratta di un bias radicato ovviamente nel razzismo, ma che è trasversale a tutti i gruppi etnici (lo troviamo quindi anche in persone con la tonalità di pelle scura).
Campagna “Clean Diesel” di Volkswagen: Volkswagen ha commercializzato le sue auto “Clean Diesel” come rispettose dell’ambiente e a basso consumo di carburante. Tuttavia, è stato successivamente rivelato che le auto erano dotate di un software che ingannava i test sulle emissioni. La campagna è stata criticata per aver utilizzato il pregiudizio cognitivo del “greenwashing” per ingannare i clienti.
Il bias che si è cercato di sfruttare in questo caso è quello per cui si tende a giudicare un prodotto o un servizio solamente su una base di un attributo (positivo o negativo) senza troppo indagare sulle altre caratteristiche del prodotto (effetto alone). Basta sbandierare questo attributo per coprire tutte le magagne.
I danni, nel caso Volkswagen, sono stati però assai pesanti: oltre al crollo del titolo in borsa e ai risarcimenti miliardari, va aggiunto un deterioramento dei rapporti diplomatici tra USA e Germania.
Questi esempi dimostrano come l’uso disinvolto di pregiudizi cognitivi nelle pubblicità possa ritorcersi contro e portare a conseguenze negative per i marchi coinvolti. È importante che i brand siano consapevoli dei potenziali rischi e delle considerazioni etiche quando utilizzano i bias cognitivi nelle loro strategie di marketing.
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