L’applicazione del Neuromarketing alla pubblicità si sta rivelando sempre di più l’arma vincente dei grandi brand e la vera rivoluzione della comunicazione pubblicitaria di questi anni. Tra le aziende che ne fanno uso Google, PayPal, e in Italia Tim.
Le neuroscienze permettono infatti di condurre analisi molto sofisticate su come il cervello elabora i media, dando suggerimenti sulle decisioni di acquisto inimmaginabili solamente un decennio fa, e rendono per la prima volta possibile leggere – letteralmente – nella mente del pubblico.
Dall’altro lato, c’è la crisi delle agenzie di comunicazione e della pubblicità tradizionali, con un crollo di attenzione e memorizzazione degli spot da parte dei consumatori ormai costante da oltre vent’anni. Scriveva nel 2013 Martin Lindstrom, uno dei padri del neuromarketing:
Nel 1965 un consumatore medio ricordava un 34% della pubblicità; nel 1990, la percentuale era scesa a 8%. Oggi, se chiedo a un consumatore quale azienda abbia sponsorizzato la trasmissione televisiva che ama di più, nella maggioranza dei casi fa scena muta.
Anche in rete, dove il digitale sta trainando uno dei più grandi boom della storia, non sono certo rose. Le statistiche parlano chiaro: il 70-80% degli utenti ignora i risultati di ricerca sponsorizzati, mentre il numero di dispositivi con blocco attivo anti-pubblicità è passato da 142 milioni a oltre 615 (fonte: Endurancecloud ). Il 70% dei marketer non riesce a veicolare il messaggio in modo appropriato e solo 1 annuncio su 100 viene cliccato (fonte: Crmwebnews).
A fronte di questi dati poco incoraggianti, le neuroscienze per agenzie pubblicitarie possono rivelarsi un valido aiuto.
In questo articolo, vedremo le principali applicazioni delle neuroscienze alla pubblicità, un esempio pratico, e i limiti di questo tipo di metodologie.
Indice dell’articolo
- Le neuroscienze per agenzie pubblicitarie
- Ricerche di mercato più attendibili col neuromarketing
- Come massimizzare l’impatto di uno spot
- Aumentare la memorizzazione ed efficacia della pubblicità
- La nascita del neurocopywriting
- Un esempio di applicazione del neuromarketing alla pubblicità
- I limiti di applicazione del neuromarketing alla pubblicità
Le neuroscienze per agenzie pubblicitarie
Le aree di impiego del neuromarketing in pubblicità sono molteplici. Vediamo quali sono le principali:
In fase di preparazione di una campagna pubblicitaria:
- comparazione tra diversi spot per comprendere quelli potenzialmente più efficace rispetto a un audience specifica
- comparazione tra diverse grafiche e copy e tra i vari elementi della stessa grafica per capire quali attirano maggiormente l’attenzione
- comprendere se le persone durante le ricerche di mercato dicono il vero o il falso
In fase di valutazione di efficacia di una pubblicità:
- rilevamento di parametri chiave quali l’attenzione e la risposta emozionale a un annuncio o uno spot in contesti specifici;
- valutazione della percezione del brand da parte del pubblico e dei cambiamenti di percezione della marca nel tempo;
- e soprattutto, la misurazione della memorizzazione del messaggio pubblicitario, che è considerato da sempre il parametro più importante per verificare il successo di una campagna pubblicitaria.
Che risultati aspettarsi? Secondo le dichiarazioni dei brand che hanno applicato tecniche di neuromarketing alla pubblicità, conversioni e interesse sono aumentati notevolmente, per alcune aziende anche del doppio.
Un altro aspetto da sottolineare delle neuroscienze per agenzie pubblicitarie è la possibilità di misurare e verificare i risultati in maniera molto accurata, il che le rende indubbiamente interessanti per le aziende di oggi, particolarmente attente alle KPI (gli indicatori chiave delle prestazioni). La crescita continua di fatturato delle aziende di ricerca specializzate è un’ulteriore riprova del loro successo.
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Ricerche di mercato più attendibili col neuromarketing
Si dice che chi ben inizia è già a metà dell’opera. E in effetti in alcuni casi il fallimento di una campagna di pubblicità non è colpa dell’agenzia di comunicazione, ma delle ricerche di mercato, a volte inattendibili.
Il problema è che gli intervistati, per una serie di motivi che possono essere i più disparati, spesso non dicono quello che sentono o pensano. E’ la ragione che spinse John Wanamaker a pronunciare la celebre frase:
Metà del mio budget in pubblicità è sprecata. Il problema è che non so di quale metà si tratti.
Lindstrom ha dimostrato in un esperimento che ha segnato la storia del neuromarketing come i fumatori di sigarette di fronte alla pubblicità progresso che avrebbe dovuto farli desistere dal vizio in realtà provavano il desiderio di fumare, anche se dichiaravano il contrario: in parole povere, mentivano (consciamente o inconsciamente).
La conclusione di Lindstrom è che Focus group, interviste e questionari possono essere in sostanza fallaci e fonti di notevoli errori se non sono accompagnate da misurazioni della effettiva risposta neuronale tramite elettroencefalogramma o altre strumentazioni idonee a dimostrare l’attivazione delle aree cerebrali di riferimento.
Questa esperienza ha rivoluzionato il modo di condurre le ricerche di mercato da parte di molte aziende, che hanno cominciato a rivolgersi in maniera crescente a società specializzate in neuromarketing a partire dal primo decennio degli anni 2000.
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Come massimizzare l’impatto di uno spot
Altro punto in cui l’applicazione del neuromarketing alla pubblicità si è dimostrata strategica è la valutazione dell’efficacia dei passaggi pubblicitari per massimizzare l’impatto degli spot. Per un esempio, ti consiglio di guardare il video UNHR Heat Map su YouTube.
Si è scoperto, ad esempio, che è nei primi 800 millisecondi di una pubblicità che lo spettatore capisce se può interessargli (Wright, R. 2010). Per questo motivo, uno spot dovrebbe cercare di creare un picco di attenzione nelle sequenze iniziali, esponendo i consumatori a scene coinvolgenti e interessanti, ed essere il più breve possibile.
Applicando le neuroscienze, è abbastanza facile individuare i punti deboli di uno spot e migliorarne la versione finale eliminandone le parti morte o poco pregnanti. Un esempio dell’applicazione di queste metodologie è lo studio svolto dal Behaviour and Brain Lab presso l’università IULM di Milano per cercare di capire come accorciare una proposta creativa per la campagna UNICEF 2016.
Usando diversi strumenti di rilevamento delle reazioni neuronali e biologiche di un gruppo di volontari, il Brain Lab ha individuato il fotogramma chiave che faceva scatenare la risposta emozionale più appropriata sia per la donazione richiesta che per l’associazione dello spot al brand.
Massimizzare l’impatto di uno spot non è però solamente questione di lunghezza adeguata e capacità di individuare i fotogrammi chiave. Se ne è accorta Segafredo con la sua campagna vendite in Polonia del 2019, risultata inferiore alle aspettative perché giudicata poco coinvolgente dal pubblico.
Anche in questo caso l’applicazione del neuromarketing alla pubblicità ha ribaltato la situazione: seguendo i risultati di uno studio neuroscientifico, una visione rivista dello spot ha aggiunto un lato umano alla campagna; il successo è stato immediato e consentito all’azienda di raggiungere il quinto posto sul mercato polacco.
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Aumentare memorizzazione ed efficacia della pubblicità
Il criterio di base per misurare l’efficacia delle campagne pubblicitarie è da sempre la memorizzazione della marca o del prodotto. Le neuroscienze hanno gettato luce anche su questo punto.
Gli studi del 1999 di Ambler e Burne suggeriscono che gli spot pubblicitari che hanno contenuto emozionale, come humor o suspense, influiscono, in termini di memorizzazione e di impatto, molto di più dei clip commerciali con contenuto di tipo razionale/cognitivo.
Questa scoperta è stata confermata da numerosi studi successivi, tra cui la prima ricerca italiana di neuromarketing, in cui si evidenzia come le aree cerebrali che si attivano in caso di spot emozionali memorizzati con successo sono diverse da quando c’è disattenzione e oblio (Babiloni, F., Meroni, V.M., Soranzo, R. 2007).
Il ruolo dei marcatori somatici
Secondo il neuroscienziato Antonio Damasio, un marcatore somatico è l’associazione tra una risposta del sistema viscerale-emozionale a una situazione determinata e al possibile esito di una scelta. Vedo gli scampi e sento una sensazione di disgusto perché da piccolo quando li ho mangiati sono stato male? Ecco il marcatore somatico in azione.
Il marcatore somatico può essere positivo o negativo, anche se in ogni caso si manifesta sempre con delle sensazioni “di pancia”. Esso gioca un ruolo importante nelle decisioni di acquisto nel caso dei prodotti di marca, come dimostra il caso trattato dallo psichiatra Robert Heat delle differenze tra la carta igienica Andrex e Kleenex.
Entrambe le marche spendevano più o meno la stessa somma in pubblicità, offrivano un prodotto sostanzialmente simile sia come qualità che prezzo. Eppure la Andrex godeva di una quota del mercato britannico quasi doppia rispetto alla Kleenex.
Heat scoprì che gli spot della Andrex usavano come mascotte un cucciolo di Labrador che suscitava immediatamente reazioni di tenerezza e suggeriva l’associazione morbidezza – carta igienica Kleenex. La conseguenza era che al momento dell’acquisto si scatenava tutta la potenza di questo marcatore somatico, con conseguente impennata di vendite e fatturato.
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Le implicazioni per il copywriting
Studi recenti hanno aggiunto altri tasselli importanti alle nostre conoscenze che potrebbero risultare particolarmente utili per i copywriter:
- Il ricorso all’ironia ed alla tenerezza riesce ad influenzare la risposta dei consumatori nei confronti del prodotto (Kotler, P., Keller, K. L., Ancarani, F., Costabile, M. 2014);
- Meglio usare storie, annedoti e altri contenuti narrativi che la secca spiegazione dei benefici razionali del prodotto;
- la reazione al sesso e al nudo è diametralmente opposta tra uomini e donne: se i primi si eccitano, ma poi non comprano il prodotto, le seconde mostrano una notevole indifferenza, col risultato che l’abbinata sesso e pubblicità è in genere una pessima idea;
- numerosi esperimenti di neuromarketing dimostrano come i visi e le immagini veicolano maggiore autorità dei testi e attirano maggiormente l’attenzione; tuttavia, i visi devono guardare il testo e i prodotti, altrimenti diventano fonte di distrazione e non di creazione di attenzione;
- E’ provato da uno studio del 2009 della Rotterdam School of Management condotto da Mirre Stallen, Ale Smidts, Mark Rijpkema, Gitty Smit, Vasily Klucharev e Guillén Fernández l’efficacia dell’uso di foto di celebrità come testimonial del prodotto;
- più in generale, l’aspetto visivo è quello che veicola maggiormente l’informazione e l’attenzione, soprattutto gli oggetti, le persone o gli animali in movimento, come dimostra questo studio di Unravel sullo spot Sony Bravia;
- siamo attratti particolarmente dai cuccioli, dai bambini piccoli e dai volti (cosiddetto: “effetto cucciolo”;
- sulla rete valgono però regole diverse: gli annunci di testo funzionano meglio, soprattutto quelli mescolati al testo, come dimostra questa ricerca della neuroscienziata Sanita Kumar su neuromarketing e pubblicità.
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Un esempio di applicazione del neuromarketing alla pubblicità
Come cambia la pubblicità col neuromarketing? Non c’è niente di meglio per capirlo che fare un esempio concreto. Tra i tanti, abbiamo scelto questo studio di neuroscienze su uno spot televisivo condotto da Brainsigns, uno spinoff accademico dell’Università La Sapienza di Roma.
Il problema sottoposto all’azienda era capire quale tra due spot da 30 secondi fosse più efficace. Scelto un campione di soggetti su cui eseguire i test, si procede ad analizzare le loro reazioni con diverse apparecchiature:
- elettroencefalogramma (EEG);
- elettrocardiogramma (ECG);
- risposta galvanica della pelle (GSR);
- oltre a condurre alcune interviste qualitative.
In questo modo si sono ottenute delle curve di risposta che misurano l’attenzione e il coinvolgimento emozionale del campione per singolo fotogramma e per tutti e due i video degli spot. Si sono così individuati i punti di forza e le zone morte di ciascuno spot, oltre a quello che tra i due ha più impatto.
Un altro esempio di neuromarketing applicato alla pubblicità è un caso trattato dalla società Neurexplore sulla valutazione e ottimizzazione dell’efficacia delle newsletter di una società finanziaria.
Anche in questo caso è stato possibile individuare le strategie di copywriting più appropriate per ottenere la risposta desiderata dal pubblico.
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I limiti e rischi dell’applicazione del neuromarketing alla pubblicità
Il neuromarketing ha sollevato entusiasmi, ma anche molte critiche e perplessità, sia di tipo etico che metodologico. In particolare, si ci è posti la domanda se effettivamente le tecniche di neuromarketing influenzino le decisioni di acquisto dei consumatori.
Questo problema è particolarmente scottante alla luce di alcuni studi neuroscientifici che dimostrerebbero, a certe condizioni, l’efficacia della pubblicità subliminale, una tematica da sempre fonte di accese diatribe tra gli studiosi.
Roger Dooley (2012, p. xiii), nell’introduzione al suo libro: “Neuromarketing in pratica”, sottolinea tuttavia che:
Le scansioni cerebrali possono mostrarti dove è posizionato il bottone rosso [che se premuto innescherebbe l’interesse dei consumatori], ma non sono in grado di cambiarlo o azionarlo”.
Sullo stesso tono la neuroscienziata Pirotta, la quale afferma che non esistono evidenze scientifiche che attestano l’esistenza di un pulsante di acquisto.
Il cervello umano non è un organo passivo, ma attivo, che può essere influenzato ma non condizionato (Pirotta, 2019). La decisione finale compete comunque all’individuo, che delibera tenendo in considerazione le proprie preferenze.
Precisi limiti all’utilizzazione di alcune tecniche di neuromarketing in pubblicità sono poi poste dalla legislazione, o dalla reazione negativa dell’opinione pubblica.
L’utilizzo di bambini potrebbe ad esempio dare fastidio nonostante l’effetto cucciolo, come dimostrano le polemiche sollevate dallo spot:“Se nevica senza jeep non si va a scuola”, mentre precise norme del codice di regolamentazione della pubblicità vietano di far leva su violenza, paura o superstizione.
Un altro rischio è la volgarizzazione e la massificazione delle campagne: provate a immaginar eun mondo dove tutte le aziende incominciano a usare i cuccioli per le loro pubblicità nelal speranza di attirare più clienti!
E non mancano neppure le critiche squisitamente scientifiche alle basi stesse del neuromarketing e al modo con cui vengono usati gli strumenti.
Innanzitutto, la mancanza di trasparenza: molte agenzie di neuromarketing utilizzano metodi di analisi e conduzione dei test “proprietari”, cioè privati e quindi tenuti segreti e sottratti alla verifica della comunità scientifica.
In secondo luogo, fare i test non è facile: basta una banale patologia tiroidea per alterare l’umore del soggetto e gli esiti dell’elettroencefalogramma. I test di neuromarketing andrebbero quindi sempre condotti con la partecipazione di personale medico o con uno screening clinico. Questo non sempre avviene.
Un altro problema emerso di recente è che la reazione dei soggetti allo spot o al prodotto può cambiare e in modo significativo se ci sono altre persone presenti (vedi i casi riportati nel libro della professoressa Michela Balconi: “Neuroscienze delle emozioni. Alla scoperta del cervello emotivo nell’era digitale”).
Il neuromarketing sembra cioè dimenticarsi che oltre che essere emozionali siamo anche esseri sociali. La sua impostazione tutta centrata sulla risposta emozionale individuale allo stimolo rappresentato dal prodotto o dallo spot trascura l’importanza degli aspetti cognitivi e coscienti dell’esperienza degli utenti, che invece è spesso determinante.
Un altro problema è che le neuroscienze sono ancora lontane dall’avere compreso come funzionano fenomeni così complessi come la coscienza e le emozioni, per cui molti assunti su cui il neuromarketing si basa potrebbero essere modificati o crollare del tutto con l’avanzamento della conoscenza.
Infine, come va in laboratorio non va nella vita reale: quante volte trovate un prodotto piacevole e poi cambiate idea perché nel vostro “customer journey” vedete altri prodotti più belli, leggete consigli o recensioni, fate i conti e scoprite che non avete soldi, e via di seguito?
In conclusione, l’applicazione del neuromarketing alla pubblicità va fatta con cautela e da specialisti. Se da una parte lo strumento può rivelarsi utile per ottimizzare uno spot, dall’altra non è privo di rischi.
La speranza è comunque che le neuroscienze per agenzie pubblicitarie siano associate in futuro a valori come il miglioramento della qualità degli spot e dell’utilità per i consumatori, e non a maldestri tentativi di hackerare il nostro consenso.
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Per approfondire:
La metafora in pubblicità secondo il neuromarketing