Il rapporto tra diritto e neuromarketing, in particolare il problema dei rischi e limiti legali dell’applicazione delle neuroscienze per influenzare i processi decisionali dei consumatori, è sempre più sentito dalla comunità giuridica italiana e internazionale.
Ne facciamo il punto in questa intervista con l’avvocato Manuela Viscardi, esperta nei profili legali del neuromarketing e consulente per la gestione aziendale e delle risorse umane per Caronte Consultancy.
Avvocato, cosa si intende per neuromarketing ai fini dell’applicazione del diritto?
I processi neuroscientifici applicati al marketing sono stati svolti per la prima volta alla fine degli anni ‘80 da grandi imprese come Coca Cola, ma solo nel 2002 viene data una prima definizione di “neuromarketing”.
Ale Smidts, docente alla Rotterdam School of Management, lo descrive come “lo studio del meccanismo cerebrale per comprendere il comportamento del consumatore al fine di migliorare le strategie di marketing”.
Il neuromarketing si concentra dunque sullo studio dello stato emotivo suscitato nel consumatore da un input esterno.
Sicuramente l’applicazione delle neuroscienze all’impresa apporta considerevoli vantaggi in termini di aumento del fatturato, miglioramento dell’organizzazione del lavoro aziendale, fidelizzazione del cliente, facilitazione del passaparola e comunicazione della brand identity.
Ma una tale attività promozionale non è certamente tutta rose e fiori. Soprattutto a livello dei profili legali del neuromarketing, a cui va assolutamente prestata attenzione. E non è solamente una questione di privacy. Le problematiche includono anche aree come la formazione del consenso, il diritto del consumatore, la pubblicità.
Quali sono i rischi e i limiti giuridici con cui dobbiamo fare i conti quando applichiamo il neuromarketing?
Ad alti livelli il neuromarketing potrebbe compromettere il libero arbitrio del cliente, tanto da incorrere in pratiche pubblicitarie e commerciali scorrette, in violazione del Codice del consumo. Infatti, il consumatore è molto più influenzabile in caso di spot subliminali ma, ricordiamo, la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta (art. 1, comma 2, D.lgs. 145/2007).
Infatti, mentre la parte conscia della nostra capacità cognitiva è limitata, quella inconscia non lo è. Dunque, mentre assimilare una grande quantità di informazioni riguardo ad un determinato prodotto o servizio offerto potrebbe risultare molto difficile, le pratiche commerciali che veicolano un messaggio nascosto risultano più incisive. E quindi anche la scelta del cliente/consumatore ne viene ampiamente influenzata. In più, il rispetto e la tutela dei dati raccolti per comprendere e allineare le nostre scelte di consumo è un altro tema molto sentito al momento.
Quali prospettive a livello legale si delineano?
Si delinea una nuova frontiera del diritto del consumatore che avrà ad oggetto non più solamente il divario tra consumatore e impresa in termini di asimmetria informativa, ma anche per quanto concerne la capacità dell’azienda di alterare il libero arbitrio dell’individuo. Questo perché l’aspetto più controverso è il fatto che il neuromarketing sia utilizzato non tanto quanto strumento per rispondere al meglio alle esigenze del cliente, quanto in realtà per fini manipolatori e di scelte indirizzate.
L’obbligo di informazione che grava in capo all’azienda costituisce sicuramente un passo importante per la protezione del consumatore, ma non è sufficiente. Anche perché la volontà della persona, avente capacità di agire ex art. 2 codice civile, ossia di compiere tutti gli atti giuridici inerenti diritti e doveri di cui può essere titolare, deve essere esente da vizi che possano comprometterla. Ma quanto in là può spingersi l’influenza sulla formazione della volontà? Un contratto stipulato per “induzione” dalle tecniche di neuromarketing potrebbe quindi essere nullo o annullabile secondo i rimedi del codice civile.
Riguardo a questa tematica, sono state sollevate anche questioni che hanno mobilitato associazioni di consumatori.
Esatto. Per esempio, una associazione nordamericana, “Commercial Alert”, ha realizzato una petizione contro l’uso delle tecniche di neuromarketing, presentata anche al congresso nordamericano, enumerando le possibili conseguenze negative dell’uso di queste. Le critiche a questa disciplina riguardano, ad esempio, l’eventuale uso di queste conoscenze da parte di aziende promotrici di attività o di prodotti meno salutari come tabacco o fast-food oppure le eventuali conseguenze della creazione di campagne di propaganda politica “troppo efficaci”.
Se il neuromarketing viene pensato come metodo per influenzare il processo di acquisto, è necessario valutare l’operato dell’azienda nelle sue pratiche pubblicitarie, che possono essere ingannevoli e, per esempio, create con lo scopo di far credere al consumatore finale che l’offerta, seppur reiterata frequentemente, sarebbe scaduta a breve. Questo significa far leva sulla paura di perdere l’occasione e, nel caso concreto, Poltronesofà s.p.a. era stata segnalata all’AGCM dall’associazione Altroconsumo poiché ripeteva costantemente la medesima pubblicità di sconti nonostante i prezzi ridotti fossero una caratteristica di base.
Veniamo alla tematica privacy e neuromarketing. Le analisi neuroscientifiche permettono di raccogliere una grande quantità di dati relativi ai consumatori. Quali rischi può comportare il trattamento di dati personali?
I dati rilevati per il neuromarketing sono spesso anche molto vicini alle informazioni sanitarie private, il che implica un’importante valutazione della privacy. Se si considera, infatti, l’approccio tipico della raccolta di dati sull’attività cerebrale, si tratta di uno studio contestualizzato, che si avvale di input altamente specifici. Al contrario, la risonanza magnetica strutturale, che non misura l’attività cerebrale, ma esegue una mappatura della struttura del cervello, percepisce informazioni cliniche private come lo stato di avanzamento di una malattia mentale, la gravidanza, o il cancro. Tali informazioni possono essere utilizzate per creare un pregiudizio alle persone e adottare nei loro confronti pratiche che arrecano loro pregiudizio.
La privacy inoltre potrebbe venir lesa nel momento in cui il soggetto che dà il suo consenso ad un sondaggio di marketing tradizionale, inserisce informazioni sulla propria salute.
L’assenza di un consenso informato rappresenta un serio problema per gli individui. Effettivamente, i partecipanti ad una determinata ricerca potrebbero essere informati in modo poco chiaro riguardo ai modi in cui i dati raccolti verranno utilizzati o addirittura venduti ad altre società. E non dimentichiamoci la possibilità di hackeraggio dei dati, eventualità che non definirei affatto remota.
Dunque, è necessario che l’individuo sia a conoscenza delle finalità della ricerca alla quale si sottopone e di dove finiranno i propri dati personali?
Certo. Le attività di studio, tracciamento e profilazione degli utenti che il neuromarketing richiede per essere applicato al web rientra nelle previsioni della legge della Privacy e richiede il consenso informato.
I limiti del neuromarketing si riscontrano nell’uso delle tecnologie che raccolgono dati personali e attuano una profilazione del cliente (una sorta di identikit). Una pratica che oggi deve rispettare il Regolamento UE 2016/679, ossia il GDPR, e richiedere il consenso informato.
Ma è necessario stare attenti anche alla sicurezza informatica dei dati, alla gestione e rivendita di questi a terze società, onde evitare sanzioni.
Consiglierebbe, in conclusione, ad un’azienda di avvalersi delle neuroscienze nella promozione dei propri prodotti o servizi?
Chi opera nel mercato non può più ignorare le scoperte della medicina e della psicologia cognitiva e le loro applicazioni, ma devono considerare i limiti legali dai quali può scaturire una responsabilità, eventualmente avvalendosi dei servizi di un avvocato con cui poter valutare i diversi profili.
Come sostiene l’esperto in materia Martin Lindstrom, il neuromarketing, essendo una scienza emergente, come qualsiasi altra, deve essere vista come uno strumento che può essere usato sia per il bene che per il male e che tutto dipende dall’uso che viene fatto.
Ringraziamo l’avvocato Manuela Viscardi per l’intervista.
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