Narrazioni e identità sono un binomio indissolubile non solo per gli individui, ma anche per le organizzazioni, i gruppi sociali e le nazioni.
È infatti attraverso delle narrazioni che si attua nelle nostre menti sia il processo di costruzione e modellazione del senso identitario (sono questo, vengo da quello, vado in questa direzione), sia la sua trasmissione nell’arco del tempo attraverso la memoria (si pensi al ruolo svolto nei secoli da bardi, poeti, scrittori e narratori nella conservazione della coscienza di un popolo).
Non sorprenderà quindi scoprire che la riflessione sul rapporto tra identità e narrazione è antichissima, fino ad arrivare, ai giorni nostri, a coinvolgere le moderne scienze neurocognitive.
La costruzione del senso di identità secondo la filosofia
La filosofia si è occupata dello studio di come le persone e le organizzazioni costruiscono il loro senso di identità fin dalle sue origini. Platone considerava l’identità come qualcosa di immutabile e universale, mentre Aristotele teorizzò l’esistenza di una sostanza sostrato che rimaneva identica a sé stessa anche se ne variavano gli attributi.
Secondo la teoria delle idee di Platone, ogni oggetto nel mondo sensibile partecipa a un’idea eterna e perfetta nell’intelletto divino. Quindi, l’identità di un individuo risiede nell’adesione alla sua idea perfetta. La filosofia classica ha dato un altro contributo importante al concetto di identità coniando il principio di non contraddizione: se io sono io, non posso essere un altro, devo cioè restare distino da tutti gli altri enti diversi da me.
Dopo alcuni secoli, Cartesio, con il suo famoso “Cogito, ergo sum” (“Penso, quindi sono”), ha posto l’accento sulla coscienza e sulla riflessione come fondamenti dell’identità individuale. Secondo Cartesio, l’identità è legata alla coscienza di sé, all’auto-riflessione e alla capacità di pensare in modo razionale.
Le teorie di Cartesio vengono sviluppate e approfondite dagli empiristi inglesi nel corso del ‘600. Locke negherà l’idea che possa esistere la sostanza sostrato aristotelica, ancorando piuttosto il senso di identità alla memoria e ai ricordi e al continuo lavoro che facciamo per mantenerli vivi.
Hume si spinge ancora più in là. Per questo filosofo, la memoria da sola non è sufficiente a creare l’identità personale, che risulterà piuttosto il risultato di un’attività in cui ricordi e percezioni vengono selezionati e assemblati dalla nostra immaginazione sulla base dei principi di verosimiglianza e causalità.
Questa operazione consente non soltanto di creare un io, per quanto illusorio, ma anche di proiettarlo nel futuro. Qualche secolo più avanti Nietzsche, riprendendo concetti già presenti nei filosofi precedenti, introduce i concetti di permanenza e uguaglianza.
La permanenza è la capacità che abbiamo di riconoscere la nostra identità come fenomeno unitario nel corso del tempo (siamo sempre noi anche se cresciamo, invecchiamo, cambiamo) grazie all’operato della memoria; l’eguaglianza quella di riportare un ente e noi stessi all’interno di una categoria di appartenenza (sono un essere umano, sono un cittadino italiano, e via di seguito).
L’eguaglianza è tuttavia un’associazione fittizia e impropria, dato che nessun oggetto reale è identico ad un altro: in sostanza, l’identità è una costruzione della nostra mente, è un’invenzione umana. Inoltre, sarebbe soggetta a cambiamenti e influenze esterne, diventando dunque una costruzione anche sociale e culturale, suscettibile di interpretazioni e contestazioni.
Un aspetto centrale nel pensiero di Nietzsche è infine quello di volontà di potenza, per cui in qualche modo siamo ciò che vogliamo diventare, attraverso un processo continuo di rinnovamento dei propri valori e del proprio punto di vista della realtà. Viene così introdotta una visione dinamica e aperta al cambiamento dell’identità.
L’aspetto sociale del concetto di identità viene ripresa e sviluppata nel secondo dopoguerra dallo psicologo Erik Erikson, che propone una teoria dello sviluppo psicosociale che mette in luce le diverse fasi di formazione dell’identità individuale lungo tutto il corso della vita.
Secondo la sua prospettiva, l’identità si forma attraverso l’interazione con l’ambiente sociale e culturale, con particolare attenzione alle sfide e ai conflitti che si presentano in ogni fase dello sviluppo. Questa concezione apre la strada a una visione narrativa del processo di costruzione dell’identità in psicologia che sarà sviluppata e approfondita dallo psicologo Jerome Bruner.
Recentemente, infine, anche il filosofo Paul Ricoeur ha sottolineando il ruolo della narrazione nella costruzione e nella comprensione dell’identità individuale. Ricoeur sostiene che siamo costantemente impegnati nella narrazione delle nostre vite, e attraverso la narrazione definiamo e reinterpretiamo continuamente il nostro senso di sé.
Un aspetto da sottolineare è che la maggior parte dei filosofi parla, a proposito del senso di identità, di continuità della coscienza e della memoria, non del corpo. Un filosofo che ha cercato di recuperare il corpo all’interno della costruzione identitaria è Charles Margrave Taylor.
Secondo Taylor, è necessario sottolineare non solo la relazione tra memoria, coscienza, narrazione, ma anche quella tra il nostro “mentale” e l’azione. Come esseri dotati di corpo, siamo costantemente immersi in un flusso di eventi dove dobbiamo continuamente scegliere tra diverse scelte possibili.
In sostanza, l’uomo si autodefinisce e afferma la propria identità attraverso il processo decisionale e la costruzione di un sistema di valori, con un processo di valutazione an ante ed ex post delle sue decisioni per dare ad esse una cornice di coerenza.
Identità e narrazione nel pensiero di Jerome Bruner
I filosofi hanno svolto un importante lavoro di apripista alle successive ricerche sia della psicologia cognitiva, sia delle neuroscienze.
Un esempio eclatante lo troviamo nell’opera di Jerome Bruner, uno dei più influenti psicologi del XX secolo, che dedicò gran parte del suo lavoro all’analisi del ruolo fondamentale che la cultura e la narrazione svolgono nello sviluppo e nella definizione dell’identità individuale, al punto di fondare ciò che sarà chiamato pensiero narrativo.
Secondo Bruner, l’uomo è innatamente orientato a costruire modelli e significati attraverso l’interazione con la cultura e la società in cui vive, in quanto la conoscenza e la creazione di senso degli individui derivino dalle risorse offerte dalla cultura di appartenenza.
Questo processo di costruzione di senso avviene attraverso la categorizzazione e la simbolizzazione, che riducono il caos e la complessità del mondo circostante. La categorizzazione, in particolare, guida l’azione individuale identificando gli oggetti (questo fenomeno appartiene a quella categoria) e gli eventi nel contesto sociale di appartenenza (vedo un uomo in maschera con una pistola fuori dalla banca, concludo che è un rapinatore: questo perché nella nostra cultura una simile esperienza viene categorizzata come rapina a mano armata).
La cultura, mediante lo strumento della narrazione, conferisce significato all’azione umana, inserendola in un sistema interpretativo condiviso dal gruppo (tutti pensiamo che un uomo o una donna con la divisa da poliziotto sono, per l’appunto, forze di pubblica sicurezza). La narrazione non è quindi solamente una semplice codificazione degli eventi, ma un processo creativo che dà forma e significato all’esperienza individuale.
Bruner esplora come le narrazioni influenzino le nostre percezioni e azioni attraverso l’esame dei resoconti dei casi clinici delle due guerre mondiali. Il mito del soldato senza paura nella Prima guerra mondiale ha portato a gravi crisi nervose, mentre nella Seconda guerra mondiale una diversa narrazione ha permesso di affrontare la paura umana in modo più realistico e fare meno vittime.
Per spiegare la relazione tra identità e narrazioni, Bruner introduce il concetto di “Sé narratore“, un’idea che fonde le teorie della letteratura e della cognizione narrativa. Questo Sé si definisce attraverso la narrazione della propria esperienza, un processo che coinvolge il contesto culturale e sociale e che è continuamente in atto dentro di noi attraverso il nostro rimuginare e ripensare i fatti della vita (autobiografia).
L’autobiografia – nel senso di Bruner – emerge dunque come uno strumento essenziale nella ricerca di significato e identità individuale. La narrazione del Sé non è però un atto solitario, ma si sviluppa in rapporto agli altri e attraverso il confronto con le proprie esperienze e utilizzando la lingua del gruppo di riferimento, che offre alle persone i concetti e le strutture per pensarsi, raccontarsi e riflettere sopra le loro esperienze e la loro identità.
Infine, Bruner osserva che la società contemporanea spesso manca di modelli di narrazione condivisi, causando una crisi di identità individuale. Questo è particolarmente evidente nella perdita del senso del mito, che tradizionalmente forniva un quadro narrativo per comprendere il mondo e il proprio ruolo in esso.
Gli studi di Gazzaniga, la teoria dell’interprete e le scoperte delle neuroscienze
L’esistenza di un sé narrante è stato ripreso in ambito neuroscientifico da Gazzaniga, tra i massimi esponenti delle neuroscienze cognitive. Lo studioso ha teorizzato l’esistenza di un’area cerebrale deputata – l’interprete – a ordinare e dare significato alla nostra esperienza del mondo attraverso la creazione di narrazioni.
Attraverso esperimenti condotti su pazienti il cui corpo calloso era stato danneggiato o asportato, Gazzaniga concluse – in maniera simile a quanto aveva teorizzato Hume – che le spiegazioni e le cause che attribuiamo alle nostre azioni potrebbero non esser altro che spiegazioni inventate, costruite a posteriori dall’interprete nel nostro emisfero sinistro.
Queste considerazioni, prendendo comunque atto delle obiezioni sollevate in merito, possono esser rafforzate dagli esperimenti del Libet, i quali sembrano indicare che l’attività cerebrale che porta a compiere un’azione inizi prima che il soggetto ne sia cosciente.
Una conferma sperimentale della tendenza dell’essere umano a cantarsela e suonarsela, ossia a inventare narrazioni che creano giustificazioni più o meno fantasiose della realtà, la troviamo nell’esperimento di Schachter e Singer (1962), in cui fu dimostrato che la narrazione suggerita dall’ambiente è addirittura in grado di determinare l’interpretazione di uno stato di eccitazione indotto artificialmente come felicità o rabbia.
Studi più recenti hanno indagato profondamente gli effetti delle narrazioni non solo sul cervello, ma sull’intero corpo, dimostrando la loro capacità di attivare non solo l’encefalo, ma anche il sistema muscolo-scheletrico, quello endocrino e quello ormonale, in una parola, di raggiungere ogni distretto somatico.
Questi studi non solo dimostrano la potenza delle narrazioni su di noi, ma fondano le varie teorie dell’incarnamento, quella particolare scuola di pensiero neuroscientifico che vede la mente come necessariamente legata al corpo che la ospita. Secondo queste correnti di pensiero non si può concepire la mente come qualcosa di staccato dal corpo che la ospita, per via dei legami strettissimi e della mutua influenza che esiste tra i due.
Narrazioni e manipolazione dell’identità
L’importanza delle narrazioni nel processo di costruzione del sé e la loro natura di costrutti sociali porta alla sgradevole conseguenza che esse possono essere utilizzate anche per ingannare, manipolare e auto ingannarsi. Non è un caso che la propaganda politica e militare è da sempre una delle arti più floride e coltivate.
Questo lato oscuro delle storie è stato sottolineato sia dai narratologi (si pensi all’opera di Will Storr) che dagli psicologi, che hanno dedicato, soprattutto in campo militare, copiose ricerche per capire cosa rende convincente una storia e di come le storie possano essere utilizzate per manipolare le persone.
Ma il ruolo delle narrazioni non è solo quello di persuadere qualcuno di esterno all’organizzazione. Studi recenti sullo storytelling dei gruppi terroristi hanno dimostrato il grande ruolo che le narrazioni svolgono in questi gruppi anche per la costruzione identitaria del gruppo stesso e la conseguente giustificazione dei crimini commessi.
Il problema principale è che, purtroppo, narrare vuol dire anche costruire e attribuire un’identità a un gruppo o a una persona, col risultato che spesso diventiamo ciò che il gruppo racconta che siamo, anche se non corrisponde affatto alla verità, o, almeno, alla nostra verità.
Un esempio drammatico, a livello letterario, si ha nel racconto di Pirandello: La patente, in cui lo sventurato protagonista alla fine si rassegna a fare lo jettatore anche se non lo è perché tutto il paese così lo descrive. E non è certo un caso che molti conflitti della nostra vita quotidiana si combattono sulla definizione di ciò che siamo: si viene ora accusati di essere irascibili, ora deboli di carattere, ora permalosi, in un gioco che dimostra tutta l’importanza del processo mentale di categorizzazione e di narrazione interna autobiografica.
Questo ci riporta al problema degli altri nel processo di cambiamento del nostro senso di identità: ricordiamoci che l’identità è definita non solo da noi, ma anche dal nostro gruppo sociale di riferimento, che potrebbe rifiutare o contestare i nostri tentativi di cambiare la narrazione di ciò che siamo; purtroppo, nessuno è profeta in patria, e spesso cambiare vuol dire rompere con il nostro ambiente originario e ribellarsi a quanto gli altri ci raccontano su di noi.
L’importanza del passato nella creazione del senso di identità
Un aspetto da segnalare dell’utilizzo distorto delle narrazioni in chiave manipolativa è la cancellazione del passato. Le narrazioni sono necessariamente costruite su un prima e un dopo, cambiando quel “prima” si ottengono automaticamente nessi causali differenti e conseguentemente interpretazioni alternative del nostro presente e di dove potrebbe andare il nostro futuro.
La storiografia, purtroppo, è piena di questo tipo di manipolazioni. Pensate a cosa possa significare cancellare o dimenticare un eccidio o un genocidio, o reinterpretarlo come un qualcosa di giustificabile, oppure sottolineare che un particolare territorio in passato appartenne a una particolare nazione o etnia per rivendicarlo.
In ambito giuridico, sono ben note le tecniche per far dire o ammettere a un testimone cose che non ha mai visto o fatto, al fine di manipolare la narrazione dei fatti in maniera favorevole alle tesi dell’accusa o della difesa, secondo i casi.
Le neuroscienze possono darci ulteriori spunti di comprensione di questo fenomeno. Il neuroscienziato Gerald Edelmann parla di presente ricordato, il fenomeno per cui qualsiasi animale ha bisogno di contestualizzare ciò che sta vivendo nell’ambito delle sue esperienze passate per poter attribuire un valore ai fenomeni in corso e sopravvivere.
Per fare un esempio di questo concetto, Edelman descrive l’animale che ha appreso a livello evolutivo che il tremolio delle foglie può nascondere un predatore, per cui comincerà a scappare non appena il vento comincia a soffiare. Senza questo ricordo, la sua reazione sarebbe probabilmente diversa. Ecco così dimostrata l’importanza del ricordo delle esperienze nella vita non solo di noi umani, ma anche delle altre specie viventi.
D’altro canto, rinarrare il passato può essere anche un ottimo modo per modificare la nostra narrazione identitaria e quindi cambiare, evolversi. Molte terapie, non a caso, si basano proprio su questa tecnica.
Il nemico, l’identità e le narrazioni
Il nemico gioca un grande ruolo in molte storie. Nel classico schema del viaggio dell’eroe, pressocché ogni narrazione si reggerebbe su un nemico da affrontare; Umberto Eco parlò di estetica del nemico per sottolineare come questo concetto gioca un ruolo essenziale nella costruzione del nostro senso di identità.
Secondo Eco, solamente avere un nemico ci consente di trovare un termine di paragone su cui misurare il nostro sistema di valori e dimostrarlo. Il nemico è così importante e connaturato all’uomo che quando manca, bisogna inventarlo.
Siamo quindi condannati alla guerra? Le neuroscienze, attraverso lo studio del default network, un’importante rete cerebrale che presiede alle narrazioni, mostra risultati contrastanti, per cui, allo stato attuale delle conoscenze, risulta non provato che il concetto di nemico abbia un fondamento biologico.
Lo stesso schema del viaggio dell’eroe non è l’unico possibile, anzi, esistono schemi narrativi diversi da questo che spiegano benissimo le storie e le narrazioni senza bisogno di inventarsi un nemico. C’è quindi ancora speranza per una costruzione della propria identità non fondata sulla necessità di avere un nemico, un progetto a cui sembrano indirizzarci le grandi religioni con il loro appello alla fratellanza universale se non, in certi casi, cosmica.
Narrazioni e terapia
Nonostante i rischi insiti in ogni storia, esiste anche un aspetto positivo delle narrazioni. La manipolazione narrativa dell’identità può essere anche terapeutica e volta a fin di bene, come dimostrano le varie tecniche di counselling che cercano tutte di sostituire la narrazione: “sono un perdente” con qualcosa di più assertivo e accettabile sia per il paziente che per l’ambiente sociale in cui si muove.
Oltre al counselling, le narrazioni stanno trovando spazio anche in ambito clinico e psichiatrico, al punto che è stata fondata in Italia una associazione di medicina narrativa. Gli ambiti più promettenti sono legati alla cura degli shock da trauma.
In conclusione, le narrazioni sono quindi armi potenti e non andrebbero mai sottovalutate proprio per il ruolo decisivo che svolgono nella definizione del sé: “E quando trovi il coraggio di raccontarla, la tua storia, tutto cambia. Perché nel momento stesso in cui la vita si fa racconto, il buio si fa luce e la luce ti indica una strada. E adesso lo sai, il posto caldo, il posto al sud sei tu”, Ferzan Özpetek (Rosso Istanbul).
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