I singoli suoni richiamano immagini e significati specifici, e le immagini e i significati possono avere un loro equivalente fonetico.
Questo ci insegna la fonosemantica, la scienza che studia le corrispondenze tra la forma sonora di una parola (le vocali e consonanti da cui è composta) e il suo senso.
Il fenomeno si presenta anche nella sinestesia, la figura retorica che lega tra loro diversi canali percettivi. Esempio: “silenzio verde” (canale uditivo e canale visivo).
Tuttavia, la comprensione del significato di una parola comincerebbe molto prima del suo ascolto e del suo apprezzamento retorico, addirittura nell’osservazione dell’articolazione delle espressioni facciali che ne generano i singoli suoni (i fonemi).
In questo modo diventerebbe possibile spiegare fenomeni tra loro apparentemente molto diversi, dalla scelta dei fonemi che compongono i nomi – e comprendere perché gli orchi si chiamano orchi – all’efficacia delle pratiche di meditazione e preghiera.
Il principio di iconismo e la sua applicazione alla fonetica: i suoni sono simili all’entità che rappresentano?
L’associazione tra suoni, immagini e significati è stata a lungo negata da una tradizione che risale ad Aristotele, che sosteneva l’arbitrarietà della scelta dei segni e dava come prova la circostanza che ogni lingua utilizza fonemi diversi per indicare lo stesso concetto.
L’impostazione di Aristotele era però destinata ad essere modificata e poi superata dopo gli studi di Saussure e del filosofo Ludwig Wittgenstein. Da ultimo troviamo il linguista Roman Jakobson, che sottolinea il valore degli studi sul fonosimbolismo (1979).
Si arriva così al superamento dell’impostazione classica e all’affermazione che il principio di iconismo, per cui i segni sono simili all’entità che rappresentano (il contrario dell’arbitrarietà) può valere anche nel campo della fonetica.
Le conferme neuroscientifiche: l’effetto Takete e Maluma
Il risultato decisivo dell’esistenza di una qualche forma di associazione tra suoni, immagini e significato è un contributo recente delle neuroscienze.
Già negli studi di psicologia della Gestalt Kohler (1947) aveva mostrato sperimentalmente che tendiamo ad associare le consonanti sonore continue di una parola senza senso come: “Maluma” a forme curvilinee e le occlusive sorde di: “Takete” a forme angolari e spigolose.
L’esperimento di Kohler veniva replicato nel 2001 dai neuroscienziati Vilayanur S. Ramachandran ed Edward Hubbard utilizzando i nomi: “Bouba e Kiki” con risultati analoghi, suggerendo l’esistenza di una associazione tra forma che assume la bocca nella formulazione del suono e specifici meccanismi neuronali.
Per pronunciare il suono della consonante b, ad esempio, la bocca assume una forma circolare.
Si avrebbe così conferma delle teorie del linguista Robin Allot, autore di: The motor theory of language origin (1989), secondo cui la lingua si è evoluta da specifici programmi neuronali per determinati tipi di azioni del corpo, principalmente aventi a che fare con movimenti di parti della cavità vocale.
Quello che venne definito effetto Takete e Maluma è stato dimostrato per diverse lingue, tra cui il Ceco e lo Swahili, suggerendo che si tratti di un meccanismo universale (solamente una lingua parlata nelle Samoa ne sembrerebbe esente).
Neuroscienze e fonosemantica: le esperienze recenti
Gli esperimenti neuroscientifici recenti non hanno fatto che confermare le intuizioni della fonosemantica.
Si è così scoperto una preferenza dei bambini per l’associazione tra oggetti con angoli rotondi e vocali arrotondate, suggerendo in qualche modo che si tratti di un fenomeno innato (Maurer, Pathman and Mondloch 2006).
Studi ancora più recenti hanno dimostrato che i meccanismi di associazione tra fonemi e significati nell’effetto Bouba e Kiki coinvolgono anche le consonanti, non solo le vocali, la lunghezza dei suoni, la loro posizione e come l’ascoltatore percepisce a livello visivo il movimento delle labbra. (Annette d’Onofrio, Phonetic Detail and Dimensionality in Sound-shape Correspondences: Refining the Bouba-Kiki Paradigm, 2013).
In un altro esperimento, è stato dimostrato che esiste una associazione tra oggetti e vocali lunghe e oggetti e vocali corte (Fabian Bross, Cognitive associations between vowel length and object size: A new feature contributing to a bouba/kiki effect).
La conclusione a cui arriviamo leggendo questi studi è la prova che la scelta dei fonemi non sia del tutto arbitraria e che potrebbe essere fondata su meccanismi neurologici.
Perché gli orchi si chiamano orchi
Stabilita l’esistenza di una associazione tra i suoni e la creazione di senso, come si applica la fonosemantica scendendo al livello concreto della lingua? E che indicazioni possiamo trarne per la comunicazione?
In questo campo non mancano certamente gli studi, a cominciare dal linguista ungherese Ivan Fonagy che scoprì come le emozioni modificano i fonemi (in stato di collera, tendiamo a chiudere le articolazioni, mentre le apriamo nei momenti di piacere).
In Italia, Luca Nobile ha sottolineato come il pronome io utilizzi un tono grave in contrapposizione a tutti gli altri pronomi personali che invece modulano su tonalità più acute.
Sempre in italiano, la vocale u sembra legata al concetto di animale, di bestiale (Luca Nobile, L’origine fonosimbolica del valore linguistico, 2003).
Nell’area anglosassone Margaret Magnus (2001) ha dimostrato l’esistenza di correlazioni statistiche tra la i e le parole che indicano la riduzione di dimensione di un oggetto e della b con quelle che invece indicano grossi animali, suoni acuti e animali piccoli ma fastidiosi come l’ape.
Curiosamente, la consonante b appare spesso anche in italiano e francese per indicare animali grossi (si pensi alle parole bue e bufalo).
Queste scoperte possono essere applicate nella creazione non soltanto dei nomi dei brand (naming), ma anche nella localizzazione e creazione dei nomi dei personaggi dei film e dei videogiochi.
Useremo quindi le vocali come la u e la o per i nomi dei mostri e delle bestie (sappiamo ora perché gli orchi si chiamano orchi), le vocali più acute come la i (che Fonagy associò con la gentilezza) per personaggi più garbati e gentili come gli elfi.
Le applicazioni nello studio scientifico dei font
Le ricerche sulle complesse relazioni tra suoni, immagini e parole possono però spingersi oltre, coinvolgendo i font, ossia i caratteri tipografici che rappresentano i singoli suoni di una parola.
Oltre a favorire la leggibilità di un testo, i font sembrerebbero influenzare anche le emozioni, in quanto tendiamo ad attribuire a questi segni caratteristiche emozionali (Juni & Gross, 2008); (Caldwell, 2013).
Esisterebbe inoltre una relazione tra l’attivazione dei muscoli delle ciglia e della fronte e l’ottimizzazione estetica tipografica, che proverebbe l’esistenza di effetti biologici profondi scatenati dai font (Larson, Hazlett, Chaparro, & Picard, 2007).
Secondo questi studi, un contenuto satirico suona ancora più divertente se scritto in Times New Roman, mentre l’Arial non si presta altrettanto bene allo scopo. I font senza grazie sarebbero percepiti come più moderni e positivi, anche se questa conclusione potrebbe essere influenzata da variabili culturali.
Verso la spiegazione scientifica del funzionamento dei mantra?
Infine, vi è un ulteriore ambito su cui la fonosemantica potrebbe rivelarsi un prezioso strumento di indagine: quello dello studio dei mantra, delle successioni di sillabe senza senso apparente suscettibili però di generare effetti psichici in chi li recita.
Anche se gli studi in questo campo sono ai primordi, sembrerebbe dimostrato (2019) che i canti religiosi attivano la corteccia cingolata posteriore e l’attivazione delle onde delta le quali contraddistinguono il sonno e gli stati di rilassamento profondo.
Più in generale, l’uso di tecniche di imaging cerebrale ha portato alla conclusione che le pratiche di meditazione sono in grado di influenzare il Default Mode Network (2017), una importante rete celebrale coinvolta in diverse condizioni di coscienza, dallo stato ad occhi aperti alla progettazione del futuro.
Questo spiegherebbe il potere rilassante non solo di queste pratiche, ma anche, potenzialmente del canto, specialmente in coro.
Conclusioni: verso un uso scientifico di font e fonemi?
L’associazione tra suoni e significati non è certo una novità, né per gli scrittori né per i copywriter.
L’onomatopea è conosciuta fin dall’antichità, e quando Dannunzio coniò il marchio Saiwa era sicuramente ben cosciente del potere salivante e di attivatore dell’acquolina della successione di consonanti e vocali che sapientemente aveva scelto.
Tuttavia, la fonosemantica non solo da base rigorosa a queste intuizioni, ma apre la possibilità di una specie di grammatica sonora sull’utilizzo sapiente di vocali e consonanti che non può che essere di sicuro interesse per chi scrive.
Nell’attesa di nuovi- e si spera interessanti – risultati sperimentali, concludo questo post con le parole di Wittgenstein: “Se penso col linguaggio, davanti alla mia mente non passano, oltre le espressioni linguistiche, anche i ‘significati’; ma lo stesso linguaggio è il veicolo del pensiero” (Wittgenstein 1953: 141).
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Per approfondire:
Vilayanur S. Ramachandran e Edward M. Hubbard, Synaesthesia: A window into perception, thought and language , in Journal of Consciousness Studies, vol. 8, n. 12, 2001.