Spesso avvertiamo qualcosa che ci può far star bene o male, ma, come acutamente osservò Marie Cardinal, ci mancano le parole per dirlo, per esprimere ciò che stiamo provando.
Eppure, saper descrivere le proprie emozioni con le parole può influenzare profondamente il nostro benessere emotivo: può sembrare banale, ma il linguaggio svolge un ruolo fondamentale nel modo in cui percepiamo ed elaboriamo i nostri stati emotivi.
Le indagini scientifiche su come le parole modulano le emozioni
Questa semplice verità è oggetto di indagine scientifica almeno dagli anni ’80, fin da quando lo psicologo e sociologo James Pennebacker scrisse un libro dal titolo eloquente: Il potere della scrittura, in cui ne dimostra le possibilità terapeutiche nell’elaborazione dei traumi e delle sofferenze della vita.
Alla base di questo potere starebbe il bisogno tipicamente umano di trovare una spiegazione del senso del mondo e di quello che gli capita.
Scrivere, che poi alla fine vuol dire esprimere ciò che proviamo rispetto a una esperienza, ci porta automaticamente ad elaborare e incorniciare il nostro vissuto emozionale in una narrazione, cioè una delle strutture cognitive più potenti di cui disponiamo.
La psicologa cognitivista Lisa Feldman Barrett si spinge più in profondità, sostenendo che le emozioni sono costruite dal cervello attraverso un processo complesso che fonde e unisce percezioni corporee, percezione del mondo esterno, memoria e soprattutto linguaggio.
Il ruolo del linguaggio nella costruzione delle emozioni sarebbe in sostanza legato al bisogno del cervello di categorizzarle, rapportando la percezione a qualcosa che già conosciamo. La domanda che ci poniamo non sarebbe: come mi sento, ma piuttosto: a cosa assomiglia questa sensazione?
La Barret non fa che riprendere e sviluppare le teorie dell’appraisal, proposte per la prima volta negli anni ’60 (Schachter e Singer, Frijda, Richard Lazarus) per cui noi etichettiamo in qualche modo le emozioni prima di provarle.
Le critiche alla teoria dell’appraisal
La teoria dell’appraisal non è certa l’unica in questo campo e non ne mancano i critici. Lo psicologo cognitivista Robert Zajonc aveva scoperto che la mera esposizione a uno stimolo può portare il soggetto a considerarlo gradevole senza bisogno di etichettarlo già sul finire degli anni’60.
Il neuroscienziato Joseph LeDoux, scopritore del meccanismo neuronale della paura, individuò negli anni ’90 due vie neurali attraverso cui uno stimolo viene elaborato a livello cerebrale: una alta, precisa e accurata che ci permette di prendere coscienza di ciò che ci sta accadendo, una bassa, più veloce ma grezza, per decidere rapidamente sulla pericolosità o meno dello stimolo.
La via più veloce di LeDoux richiama il ruolo ipotizzato da Darwin delle emozioni come meccanismi innati universali di predisposizione all’azione di fronte a determinati stimoli (di minaccia, opportunità, etc.).
Tuttavia, la teoria di LeDoux non esclude assolutamente l’appraisal e il bisogno di costruire le emozioni a livello linguistico, proprio per la dimostrazione dell’esistenza di una via più lenta, superiore, in cui elaboriamo consciamente il nostro vissuto.
Più drastico lo psicologo James Russell, che ha rigettato la teoria dell’appraisal proponendo un modello dimensionale, in cui le emozioni sarebbero semplicemente livelli diversi di attivazione del sistema neuronale e nessun ruolo avrebbero in esse le categorizzazioni.
Anche la teoria di Russell è però oggetto di critiche, in quanto considerata da alcuni autori incompleta e non in grado di coprire tutto l’ampio spettro della nostra vita emozionale.
Conferme recenti del potere delle parole e della scrittura sulle emozioni
Oggi si tende a considerare tutti questi modelli come reciprocamente integranti, per cui le emozioni non sono più viste né unicamente come un processo di categorizzazione né come semplici reazioni istintuali.
Klaus Scherer, ad esempio, ha proposto una teoria componenziale delle emozioni, per cui esse sarebbero il risultato di molteplici processi psichici e fisiologici, sia pulsionali che cognitivi.
Sul terreno più strettamente neuroscientifico, uno studio condotto presso l’Università di California ha rivelato che l’etichettatura precisa delle emozioni riduce l’attività dell’amigdala, la regione del cervello coinvolta nelle risposte emotive intense, come la paura o la rabbia.
Questo suggerisce che le parole possono agire come una sorta di regolatore emotivo, aiutandoci a ridurre l’intensità delle emozioni negative e a ritrovare uno stato di calma, oltre a dare un senso alle nostre esperienze interne, facilitando la comprensione di ciò che proviamo.
Più in generale, gli studi dell’ultimo decennio condotti con strumenti sempre più sofisticati come la risonanza magnetica funzionale sembrano escludere l’esistenza di un centro delle emozioni o di una via privilegiata, indicando piuttosto il vasto coinvolgimento di parecchie reti sia corticali che subcorticali, rivalutando dunque il ruolo degli aspetti più cognitivi e linguistici e andando nella direzione proposta dalla Barret.
Parole, emozioni e relazione con gli altri
Il potere delle parole non si ferma però qui. Saper descrivere, o meglio, scrivere le proprie emozioni crea un ponte tra la dimensione soggettiva delle emozioni e il mondo esterno. Le parole ci aiutano, in sostanza, a comunicare e condividere le nostre esperienze con gli altri, favorendo un senso di connessione e comprensione reciproca.
Uno studio del 1971 ha dimostrato che i bambini impulsivi traggono beneficio se imparano a parlare di loro stessi. Più in generale, non mancano gli studi che dimostrano una forte correlazione tra sviluppo delle abilità linguistiche e l’autocontrollo e quindi suggeriscono la scrittura creativa come ottima attività di aiuto per persone condannate per reati di violenza.
Sotto quest’ottica, un aspetto interessante della relazione tra parole ed emozioni è il plurilinguismo. Alcune emozioni sono specifiche a determinate culture, per cui chi conosce più lingue ha anche a disposizione un repertorio maggiore di parole per descrivere e rappresentarsi il proprio percepito emotivo.
Scrittura ed emozioni: l’importanza dello studio della letteratura e della lingua
Ormai dovrebbe essere chiaro al lettore quanto la lingua, avere cioè in mano le parole per dirsi e raccontarsi i propri stati d’animo, sia importante per il proprio benessere.
La via maestra per aumentare le proprie competenze in questo campo è, ovviamente, praticare. Il primo passo potrebbe essere leggere opere di narrativa, poesie, saggistica, qualsiasi fonte che amplia non solamente il nostro vocabolario, ma il nostro patrimonio concettuale e la consapevolezza che abbiamo del significato dei concetti che utilizziamo ogni momento per raccontarci il nostro vissuto interiore.
Il secondo passo può essere cimentarsi nella scrittura delle proprie emozioni, ad esempio con un diario, oppure discutere e dialogare con gli altri su qualsiasi argomento, imparando ad argomentare e ad analizzare le nostre e le loro reazioni.
Infine, una buona idea resta studiare una lingua straniera e cercare di comprendere un patrimonio linguistico-emozionale diverso dal nostro.
La riduzione del linguaggio e il suo impoverimento hanno invece l’effetto opposto, rendono più difficile modulare e controllare le proprie emozioni e mediare il rapporto con gli altri. Non stupisce che una società impoverita linguisticamente diventi anche più violenta e brutale, oltreché più stupida e incapace di strutturare pensieri complessi.
Agire (impulsivamente) di meno e dedicare del tempo a scrivere le proprie emozioni potrebbe quindi essere la via maestra per stare e far stare bene non solo noi stessi ma anche gli altri.
Ti è piaciuto questo articolo? Iscriviti alla newsletter per ricevere contenuti simili. Oppure, leggi il mio ultimo libro, Neuroscienze della narrazione.
Potrebbe interessarti anche il seguente articolo, le parole come inneschi emotivi.