Meme, o quei brevi contenuti divertenti, ironici o bizzarri che diventano rapidamente virali nella rete. Quello classico è in genere composto da un’immagine e da un breve testo, con una fusione tra elemento scritto e visivo molto stretto, ad esempio quello di Fedez: dillo alla mamma, dillo all’avvocato.
La caratteristica di ogni meme ben riuscito è la viralità: del resto, l’etimologia del termine viene dal greco: “Mimema”, cioè: “imitazione”. Qualcosa, cioè, che tendiamo impulsivamente a replicare e a diffondere, in modo del tutto irrazionale.
Da dove viene la parola meme?
I meme non nascono con internet. Il padre del termine sarebbe il biologo Richard Dawkins che lo introdusse nel 1976 col suo libro: “Il gene egoista” (1976). Per Dawkins, un meme è un blocco di informazioni che si autoreplica e si diffonde all’interno di una popolazione umana.
Il concetto venne subito ripreso dalla linguistica, che ne vide l’assonanza con i concetti di morfema e fonema, le più piccole unità di un discorso o una parola. Il termine ha poi assunto il significato attuale, ossia un modo per comunicare espressioni sociali, culturali o politiche tramite l’umorismo.
Gli aspetti strutturali di un buon meme
Quali sono le caratteristiche che fanno un buon meme? Secondo Saint Hoax, grande esperto e creatore di meme, un buon meme deve essere transculturale e facilmente trasmissibile. Deve catturare un momento e distrarci per un secondo dalla realtà, ricordandoci che dopotutto la situazione è disperata ma non è seria, per dirla con Robert Shaw.
L’utilizzo della rete come medium di diffusione rende molto importante la capacità di attrarre l’attenzione di ogni meme ben riuscito. Questo scopo viene raggiunto proprio grazie alla sua parte visiva: è ormai risaputo che il nostro cervello processa molto più velocemente le immagini delle parole scritte, e del forte potere coinvolgente di qualsiasi narrazione che sa far leva sull’organo della vista.
Il secondo aspetto da non trascurare mai è la sua brevità e semplicità: un meme deve essere compreso in qualche secondo, il lettore della rete è troppo veloce e troppo distratto per dedicare tempo e risorse cognitive a comprendere qualcosa di troppo cervellotico, complesso o astratto.
Ciò rinvia all’ultima caratteristica di un buon meme: deve parlare la lingua del suo pubblico, e fare riferimento a qualcosa di ben conosciuto nell’ambiente sociale di riferimento. Il riferimento al linguaggio di ogni giorno e al gergo può renderlo esclusivo e interno a una determinata cerchia sociale, come può anche condannarlo a una rapida obsolescenza quando l’espressione o l’abitudine sociale su cui si basa cambia.
Perché i meme funzionano
I meme sono anche stati oggetto di studi e riflessioni neuroscientifici. Lo stesso Dawkins è ritornato recentemente su quest’argomento osservando come un buon meme funziona su una potente semplificazione della realtà e sul senso di gratificazione e piacere che il cervello prova quando o comprende. In sostanza, il meme è facile e piacevole, ci da quella momentanea botta di soddisfazione e sorriso per andare avanti.
La carica emotiva e la soddisfazione che ne deriva sarebbe anche alla base della facile memorizzazione e quindi ripetizione dei meme, per via di un aumento momentaneo della plasticità neuronale collegata a questo fenomeno.
Usi virtuosi e usi pericolosi dei meme
Altre ricerche hanno scoperto una relazione tra i meme con contenuti deprimenti e il miglioramento dell’umore delle persone depresse. In sostanza, una battura triste ma ben azzeccata ha il potere di aiutare chi soffre di depressione, il che potrebbe aprire la strada a un possibile utilizzo terapeutico dei meme.
Infine, non mancano gli studi sulla possibilità di usare i meme come veicoli per diffondere messaggi distorti o teorie cospirazioniste. Purtroppo, come ogni cosa anche i meme hanno un loro lato oscuro, che, nel caso delle teorie del complotto, sarebbe anche molto forte e potente, almeno a stare alle parole di Dawkins, ormai il padre incontestato delle ricerche in materia.
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