Cos’è e a cosa serve lo storytelling

Parola sempre più usata e inflazionata, “storytelling” è un prestito dalla lingua inglese. Letteralmente significa: “raccontare storie”, anche se viene ormai sempre più spesso utilizzata nel significato di: “arte del raccontare storie”.

In italiano esiste un altro termine con significato simile, “affabulare”, che secondo l’enciclopedia Treccani indicherebbe l’organizzazione di un tema o un soggetto in favola. Tuttavia, i due termini, “affabulare” e “storytelling” non possono essere considerati del tutto sinonimi:

  • “Affabulare” ha spesso una connotazione negativa, indica una costruzione della fantasia più o meno inverosimile. Invece, “storytelling” è più neutro, può indicare anche l’abilità di presentare in forma narrativa qualcosa di reale o verosimile;
  • “Storytelling” è un termine più generale e meno tecnico, non implica necessariamente una messa in scena o l’organizzazione di un tema sotto forma di favola. Molte volte viene utilizzato come sinonimo di “narrare, modo di raccontare, narrazione”.

Oggi la parola storytelling viene impiegata in italiano per indicare almeno tre ambiti:

  • l’espressione in forma di storia di un tema o soggetto per finalità non solo ludiche ma anche formative e educative;
  • l’arte di saper creare contenuti particolarmente persuasivi per finalità di marketing o di comunicazione politica e sociale, non necessariamente articolate nella struttura di un racconto (corrisponde in questo senso più all’inglese: narration);
  • l’arte o l’abilità di scrivere storie e narrazioni di qualsiasi genere, finalità e tipo (corrisponde in questo senso maggiormente all’inglese: storytelling).

Nei prossimi paragrafi analizzeremo queste tre aree nel dettaglio. Prima, però, è bene chiarire la differenza con la narratologia (la scienza delle storie) e il concetto di pensiero narrativo, ossia di come le narrazioni (e quindi lo storytelling) influenzano la nostra mente.

Storytelling e narratologia

Lo storytelling, inteso sia come arte del raccontare, sia come arte del saper creare storie persuasive, deve molto alla narratologia, ma con essa non va confuso.

Anche se i primi studi sulle narrazioni risalgono addirittura al tempo di Aristotele, il termine: “narratologia”, che significa letteralmente: “scienza della narrazione”, è piuttosto recente ed è stato coniato dallo studioso e filosofo Tzvetan Todorov nel 1969.

La narratologia indaga gli aspetti strutturali delle storie e si occupa principalmente di letteratura e critica letteraria. Tuttavia, gli scambi tra le due discipline sono e saranno sempre frequenti e intensi, per le ovvie ricadute che l’analisi scientifica delle storie ha sull’arte di scriverle.

Storytelling e pensiero narrativo

Il pensiero narrativo è una corrente di pensiero che fa capo allo psicologo Jerome Bruner e ad alcuni filosofi, tra cui spicca il nome di Paul Ricoeur, che sottolinea come gli esseri umani danno senso alle esperienze che fanno nel mondo utilizzando schemi di tipo narrativo. Da qui la fondamentale importanza delle narrazioni per chi desidera capire come viene interpretata la realtà dalla nostra specie.

Bruner, in particolare, esalta il ruolo delle narrazioni considerandolo come lo strumento principale di attribuzione di senso alla realtà utilizzato in qualsiasi epoca e cultura. Ciò avviene per via del continuo lavorio di rimuginazione e rinarrazione che la nostra mente fa delle esperienze che via via viviamo per dargli un significato sotto forma di autobiografia.

Narrazioni e senso dell’identità

Da questo continuo storytelling interiore discenderebbe anche la creazione del nostro senso di identità, che non è altro che un continuo lavorio di integrazione delle esperienze passate col presente e di creazione di schemi possibili per il futuro.

Tuttavia, le persone non vivono isole: gli elementi e gli schemi che utilizzano per creare il loro storytelling interno sono strettamente collegate alle forme di pensiero, alla lingua e soprattutto alle narrazioni presenti nel corpo sociale di riferimento.

Ne deriva, da parte di questa scuola, una grande apertura e attenzione agli aspetti sociali e culturali che fatalmente impattano su come noi ci raccontiamo e narriamo continuamente noi stessi.

Il potere dello storytelling

Ma se le persone sono così permeate dalle narrazioni collettive del loro ambiente, ne deriva che queste ultime hanno una influenza decisiva non solo a livello di costruzione del senso della realtà, ma anche della stessa identità personale.

Da qui la conclusione che le narrazioni e l’arte di raccontarle – per appunto lo storytelling – sono un’arma persuasiva formidabile e potenzialmente molto pericolosa, come dimostra il ruolo della propaganda in ogni tempo e latitudine.

Il lato positivo del potere delle storie è che possono essere utilizzate anche per guarire, per la terapia, per modificare atteggiamenti, e via di seguito, non solo per scopi di persuasione occulta.

Lo storytelling come strumento didattico, esplicativo e formativo

Il primo ambito in cui lo storytelling è massicciamente utilizzato è quello didattico e formativo, per via della grande capacità esplicativa che hanno le storie.

Raccontare una storia per illustrare un principio rende infatti tutto immediatamente più facile e comprensibile per via della capacità che hanno le narrazioni di collocare immediatamente i fatti in una prospettiva di nessi di causa ed effetto e di far leva su aspetti di tipo emozionale o che si riagganciano a passate esperienze di chi ascolta.

Oltre alla comprensione, le storie lavorano bene anche sulla memorizzazione. Ormai è largamente provato che si ricorda meglio un concetto espresso attraverso una narrazione rispetto ad altri metodi divulgativi basati sulla semplice esposizione dei concetti.

Per questo motivo le voci che raccomandano l’impiego dello storytelling sono diventate sempre più numerose, al punto che la parola ha assunto una connotazione sempre più ampia e forse impropria, descrivendo in sostanza il metodo utilizzato da qualsiasi formatore o docente per spiegare la sua materia.

Possibilità e rischi dello storytelling in campo didattico

Oltre a raccontare una storia, lo storytelling utilizza anche strumenti alquanto potenti che non sono, strettamente, narrazioni, in particolare la metafora. Fare dei paragoni, va ricordato, è da sempre uno degli strumenti didattici più comuni, potenti e utilizzato in ogni cultura.

Un altro interessante strumento collegato allo storytelling è la creazione di narrazioni ipotetiche, ossia possibili scenari alternativi al corso atteso degli eventi per evidenziare aspetti che altrimenti resterebbero in sordina.

Infine, va ricordato che i benefici dell’impiego in campo didattico e educativo dello storytelling vanno ben oltre la semplice spiegazione dei concetti e includono lo sviluppo di abilità importanti per la vita di relazione sociale come l’empatia.

Non mancano però i rischi: le narrazioni tendono fatalmente a presentare una versione dei fatti dal punto di vista di chi le narra, sono cioè tendenzialmente riduttive e di parte. Non è un caso se l’umanità ha dovuto sviluppare, per le scienze esatte come la fisica, uno strumento linguistico alternativo, ossia il formalismo matematico, che è molto diverso da una storia.

Fallacia del cherry picking

Un esempio dei rischi dello storytelling è la cosiddetta fallacia del cherry picking, ossia al tendenza di considerare solamente le prove a favore e non quelle contrarie alla propria tesi o alla propria aspettativa.

Ciò porta a costruire narrazioni in cui si evidenziano solamente i fatti e gli elementi a proprio favore, ignorando quello che potremmo definire come il punto di vista dell’altro. Ne troviamo ampi esempi non solo in campo politico, ma anche legale: da sempre l’avvocato di controparte porta solamente i fatti che gli interessano, guardandosi bene da una ricostruzione imparziale della vicenda.

I problemi della storiografia

La tendenza a creare narrazioni basate su interpretazioni unilaterali e di parte è particolarmente evidente in campo storiografico, al punto che il filosofo Alex Rosemberg ha sostenuto che la storiografia è sbagliata alla radice per la sua inevitabile parzialità.

Anche per lo psicologo Paul Bloom le storie rafforzano le divisioni invece che risolverle; i nemici vengono presentati come appiattiti, immutabili, ottusi proprio per ridurne il grado di empatia e di umanità. Questa tendenza a caricaturare le narrazioni potrebbe essere legata alla tendenza delle persone ad essere attirate dai problemi e dalle narrazioni tristi, e dal bisogno che aveva già enfatizzato Umberto Eco di avere un nemico da combattere.

Lo storytelling come strumento decisionale

Un altro ambito in cui è stato esplorato l’impiego dello storytelling è quello delle decisioni e del management. Se le storie sono il nostro principale metodo per interpretare la realtà, la soluzione di un problema parte inevitabilmente dal sapere impostare in maniera corretta la narrazione che ne facciamo.

L’importanza dello storytelling in campo economico sta emergendo soprattutto nel settore dell’interpretazione dei dati: da soli, i dati non dicono nulla, bisogna saperli interpretare, ossia disporli in forma di narrazione perché diventino informazione, ossia qualcosa dotato di utilità e senso.

Un’altra applicazione di questo principio è la legge di Kidlin che dice: “Se scrivi chiaramente il problema, la questione è risolta a metà”.

Lo storytelling come strumento adattivo

Nel complesso, lo storytelling e le narrazioni potrebbero essere visti come un potente strumento adattivo che le società umane hanno per creare e trasmettere le conoscenze necessarie a sopravvivere nell’ambiente.

Questa teoria è stata proposta e sviluppata da numerosi studiosi di narrazioni, tra cui ricordiamo Joseph Carrol e gli autori della scuola del Literary Darwinism, che vedono le storie e la cultura umana come una risposta adattiva all’ambiente.

Storytelling e marketing narrativo

Il marketing e più in generale la comunicazione si interessano ormai da anni allo storytelling per via del grande potere persuasivo delle storie e delle narrazioni.

Dopo i lavori pionieristici di grandi pubblicitari come Edward Bernays (fautore dell’utilizzo di tecniche di manipolazione occulta delle masse) o Leo Burnett (maestro di campagne basate su storie emozionanti), l’utilizzo dello storytelling in questo settore può essere considerato ormai ben radicato. Bernays è anche stato un pioniere dell’impiego in comunicazione della psicologia, un binomio da sempre presente e che ha segnato lo sviluppo e la crescita di questo speciale tipo di storytelling.

L’idea di base dell’applicazione dello storytelling alla comunicazione commerciale è che presentare un brand o un prodotto tramite una storia coinvolgente è molto più efficace della semplice descrizione delle caratteristiche del prodotto in sé, sia per la leva che si riesce a fare sulle emozioni, sia sulla maggiore memorizzazione che si riesce a ottenere del messaggio pubblicitario.

L’applicazione a questo campo degli studi di psicologia cognitiva prima e delle neuroscienze poi ha consentito l’accumulo di una notevole mole di conoscenze empiriche su cosa accade nella mente degli spettatori e dei destinatari delle campagne di pubblicità, con ricadute di indubbio interesse anche per chi si occupa più in generale di narratologia, anche al di fuori dall’ambito commerciale.

Oggi c’è chi parla, più che di storytelling, di marketing narrativo: la persuasione avverrebbe attraverso il racconto del brand, in un quadro dove ormai da anni il consumo non si basa più sulle caratteristiche oggettive degli oggetti, ma sull’esperienza complessiva che lega prodotti o servizi a chi li consuma.

La teoria del viaggio dell’eroe

Uno degli strumenti più potenti mai utilizzati in questo campo è la teoria del viaggio dell’eroe, elaborata da Joseph Campbell, anche se l’autore si riferiva alle narrazioni mitologiche e religiose e alla psicologia analitica di Jung, non alla pubblicità.

Secondo questa teoria, le narrazioni coinvolgenti e di successo – caratteristica che ogni storia deve avere per far vendere o promuovere un prodotto – seguono una struttura tipica alternata in diverse fasi e con personaggi dal ruolo prefissato.

In sostanza l’eroe attraverserebbe un vero e proprio viaggio scontrandosi con il suo nemico da cui ne emerge trasformato. Oggi questa teoria è considerata superata a favore di schemi più universali, come la trama a onde proposta dallo scrittore Kurt Vonnegut.

Le strutture narrative di successo

I pubblicitari e gli psicologi del comportamento del consumatore hanno svolto lunghe indagini sulle strutture narrative di maggior successo, andando molto oltre la teoria del viaggio dell’eroe.

Gli studiosi Young & Kastenholz hanno individuato, in particolare, quattro modelli ricorrenti che caratterizzano le storie di successo.

Ricordiamo il crescendo drammatico (la tensione cresce continuamente e gradualmente fino all’esplosione finale) e l’emozione sostenuta (si comincia con una emozione positiva che viene aumentata fino alla conclusione), come ad esempio negli spettacoli televisivi, dove si ride sorride e applaude in continuazione dall’inizio alla fine.

L’importanza dell’arco narrativo nella comunicazione commerciale

Un aspetto cruciale per chi si occupa di storytelling in ambito commerciale è comprendere i punti di maggior coinvolgimento emotivo di una storia (arco narrativo). Ciò è fondamentale per poter posizionare in modo opportuno il brand, il logo, il messaggio che si vuole veicolare o la call of action, ossia l’azione che si desidera far compiere ai fruitori della campagna (ad esempio prenotare un appuntamento).

Per scoprire dove si collocano questi punti sono stati utilizzate alcune teorie su come dovrebbero strutturarsi le trame, in particolare quella della piramide di Freytag, che suddivide un buon schema narrativo in cinque parti e colloca il culmine (climax) verso la fine.

Le moderne tecniche di neuromarketing consentono, tramite speciali test condotti con strumentazione neuroscientifica, di individuare questi punti in via empirica. Esperimenti sono in corso per arrivare allo stesso risultato con l’intelligenza artificiale.

Storytelling e modifica degli atteggiamenti impliciti

Uno degli impieghi principali dello storytelling in ambito di comunicazione persuasivo è quello di modificare credenze, opinioni o addirittura comportamenti, come ad esempio far smettere alla gente di fumare o cessare di compiere altre azioni socialmente nocive o riprovevoli.

Questo tipo di storytelling cerca di utilizzare il potere di storie particolarmente commoventi. Una domanda che da sempre si pongono agenzie, scrittori e psicologi è se effettivamente questo avvenga.

Come ho scritto nel mio libro: Neurocopywriting (Hoepli), la risposta è tutt’altro che scontata, in quanto non dipende solamente dal buon confezionamento degli spot, ma anche dal pubblico, il che sembra dimostrare un limite del potere delle narrazioni.

Storytelling e propaganda politica

L’ambito in cui storie e narrazioni sono da sempre massicciamente impiegate resta, comunque, la politica, sia nel senso di costruzione dell’identità nazionale, sia intesa come propaganda di guerra, sia nell’ordinario dibattito tra le differenti parti sociali.

La retorica, nata nell’antica Grecia nell’ambito delle prime polis, non a caso è una delle più antiche discipline conosciute e si può considerare a tutto titolo come l’antenata dello storytelling attuale, che ne riprende abbondantemente molte delle tecniche e dei principi.

Storytelling e identità dei gruppi sociali

La costruzione identitaria di qualsiasi gruppo umano ha bisogno di un apparato narrativo complesso e articolato. Come per gli individui, solamente attraverso degli schemi narrativi i gruppi sociali riescono a rappresentarsi da dove vengono e dunque chi sono e dove andranno nel futuro.

Anche in questo caso, si pone il problema del ruolo che può svolgere l’esistenza di un nemico per cementare il gruppo e rafforzarne la costruzione dell’identità. Si pensi, ad esempio al ruolo che ha svolto l’antifascismo in Italia per i partiti di sinistra o l’anticomunismo per quelli di centro e di centro-destra.

Se da una parte gli studiosi che sostengono che il nemico riveste un ruolo centrale in qualsiasi narrazione identitaria e debba quindi essere sempre presente sono moltissimi (oltre a Eco ricordiamo lo stesso Campbell e il narratologo Jonathan Gottschall), c’è anche da dire che mancano reali prove neurofisiologiche che il cervello umano sia strutturato in modo da avere assolutamente bisogno di qualcuno da odiare.

Le guerre cognitive e la propaganda di guerra

Lo storytelling è da sempre considerata una delle armi più efficaci per qualsiasi propaganda volta a demoralizzare, cambiare o modificare atteggiamenti di gruppi sociali o apesi ritenuti ostili. Non stupisce quindi che molte ricerche sono state svolte in questo campo proprio dai militari. Gli stessi padri fondatori della moderna pubblicità si occuparono di queste tematiche.

Oggi la presa che hanno sulla mente delle persone i nuovi media digitali e la possibilità di creare deep fake particolarmente credibili hanno ampliato parecchio sia l’armamentario comunicativo a disposizione delle varie agenzie di disinformazione, sia la possibilità di colpire più o meno impunemente obbiettivi in ogni parte del globo con storie totalmente false e diffamanti in grado di distruggere la reputazione di politici e personalità di riferimento di un gruppo sociale o di una nazione.

Da qui l’espressione di guerra cognitiva: si tratta di qualcosa che va ben oltre la tradizionale propaganda di guerra per indicare un complesso di operazioni che mirano, attraverso l’uso sapiente di narrazioni in genere false, a distruggere la coesione e la fiducia del gruppo target.

Storytelling, propaganda interna e dittature

L’idea che le masse sia agitate da impulsi irrazionali e che siano controllabili attraverso delle narrazioni studiate opportunamente e che facciano leva sulle loro emozioni e paure primordiali risale agli anni ’30 del secolo scorso, il periodo che vide, non a caso, il massimo fiorire di stati dittatoriali in Europa.

È sempre Edward Bernays, pioniere non solo della comunicazione commerciale ma anche di quella politica, a inventare l’espressione: “fabbrica del consenso” e a varare e sdoganare definitivamente l’ampio utilizzo dello storytelling per questo scopo.

Ma mentre l’intento di Bernays era difendere la democrazia, le grandi dittature europee dimostrarono la potenza sulle masse della continua esposizione a determinate narrazioni confezionate ad hoc. I principi elaborati per la propaganda in questo periodo sono ancora oggi alla base di gran parte dello storytelling in ambito politico.

Storytelling e medicina narrativa

Una nuova frontiera per lo storytelling si sta aprendo in campo medico. Le competenze comunicative del personale sanitario possono infatti alleviare la situazione e contribuire a migliorare il morale – e quindi le capacità di reazione e risposta – di chi si trova su un letto d’ospedale.

Non stupirà quindi sapere che nel 2014 il Ministero della Sanità ha riconosciuto la Medicina Narrativa, quella: “metodologia d’intervento clinico-assistenziale basata su una specifica competenza comunicativa. La narrazione è lo strumento fondamentale per acquisire, comprendere e integrare i diversi punti di vista di quanti intervengono nella malattia e nel processo di cura.”

Narrazioni e trattamento dei traumi

La clinica ospedaliera non è il solo ambito di intervento per le narrazioni: da tempo se ne conosce anche il potere terapeutico per quello che genericamente può essere definito disagio psicologico e in particolar modo nel trattamento dei traumi.

Una conseguenza del disordine post-traumatico da stress è infatti quella di invalidare la capacità della vittima di raccontare gli eventi in modo causale e plausibile. Il trauma crea in sostanza un vuoto, una esperienza perduta che la porta a cercare di riviverlo e raccontarlo di nuovo nel tentativo di recuperare qualcosa.

Il terapeuta si pone in questi casi come un facilitatore che aiuta a ricostruire gli eventi desolanti e il loro significato. Fare raccontare in terza persona è necessario quando si desidera creare una distanza con gli eventi, mentre tornare alla prima persona può servire a far rivivere alla vittima le emozioni del trauma.

La moviola – rivedere i ricordi al rallentatore – è un metodo per recuperare il contesto e altri particolari, mentre fornire un dettaglio dell’evento come incipit di una narrazione può essere un’altra tecnica utile per far ricordare in modo naturale ciò che è successo.

Conclusioni

La parola storytelling sta assumendo in italiano una connotazione sempre più ampia e sfumata, ricoprendo tutto l’ambito del saper creare e raccontare delle storie per finalità sia didattiche che terapeutiche che persuasive.

La disciplina si è andata via via arricchendo di contributi importanti non solo dalla narratologia classica, ma anche dalla psicologia cognitiva e dalle neuroscienze.

La sua importanza non è mai venuta meno ed è destinata a svolgere un ruolo centrale nella vita individuale e sociale per via dell’importanza che hanno storie e narrazione nella costruzione non solo dell’identità, ma della stessa attribuzione di significato al mondo.

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Bibliografia essenziale:

Stefano Calabrese e Giorgio Grignaffini (a cura di) La Bottega delle Narrazioni, Roma, Carocci editore, 2020

Alberto Casadei, Biologia della letteratura: corpo, stile, storia, Il Saggiatore, Milano, 2018

Stefano Calabrese, Neuronarrazioni, Editrice bibliografica, Milano, 2020

Stanislas Dehaene, I neuroni della lettura, Cortina, Milano, 2009

Toni Marino, Dalla narratologia alla psiconarratologia: il metodo sperimentale nello studio della narrazione, Fausto Lupetti, Bologna, 2018

George Lakoff, Mark Johnson, Metafora e vita quotidiana, ROI, Macerata, 2022

Will Storr, La scienza dello storytelling: come le storie incantano il cervello, Codice, Torino, 2020

Jonathan Gottschall, Il lato oscuro delle storie, Boringhieri, Torino, 2022

Immagine di freepik

Autore: Marco La Rosa

Sono un web content writer, web designer e esperto di SEO e UX design. Ho scritto il libro Neurocopywriting, edito da Hoepli, dedicato all'applicazione delle neuroscienze alla comunicazione.

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