Meditazione buddhista: dal mito ai tangibili benefici neuroscientifici

La meditazione buddista ha da sempre esercitato un grande fascino sul nostro immaginario. Numerosi sono i film, contenuti, romanzi e fumetti in cui i monaci buddisti compiono imprese sovrannaturali, per non parlare della concentrazione che i samurai raggiungevano tramite la pratica dello zen, ormai una vera e propria icona pop.

I benefici della meditazione buddista vanno però cercati non nell’acquisizione di improbabili superpoteri, ma semplicemente in un aumento del benessere emozionale, cioè in quel liberarsi dai tre veleni di collera, stupidità e avidità che rovinano la nostra qualità della vita e ci precludono le decisioni sensate e realmente in asse col nostro benessere (Dalai Lama e Daniel Goleman, Emozioni distruttive, Milano, 2003).

Le ricerche di Davidson sui monaci tibetani

Oggi il metodo neuroscientifico consente di indagare i benefici della meditazione buddista con la moderna tecnologia medica, dimostrandone gli effetti e la validità. A cominciare dai test condotti da Richard Davidson nel campus di Madison tra gli anni 90 e primi 2000, gli ultimi decenni hanno infatti visto un fiorire di studi e contributi (tra cui ricordiamo quelli dello psicologo Daniel Goleman) che hanno sostanzialmente validato questa antica pratica. Di recente, si è aggiunto anche un contributo italiano. L’università di Pisa ha svolto uno studio con elettroencefalogramma su un gruppo di monaci tibetani del monastero di Sera Jay in India cercando i correlati neuronali della meditazione concentrativa e analitica.

Gli studi neuroscientifici sulla meditazione Vipassana

In realtà i tipi di meditazione buddista sono due: “in quella concentrativa si può raggiungere uno stato cognitivo di consapevolezza priva di contenuto e pensiero discorsivo; in quella analitica invece la mente viene diretta su un oggetto di riflessione (per esempio un concetto filosofico o morale), che viene analizzato in tutte le sue sfaccettature” (Bruno Neri, intervista all’Avvenire, Davide Re, Il mistero della meditazione: studiato il cervello dei monaci tibetani).

Lo studio ha evidenziato sostanziali differenze tra le due meditazioni, con un notevole potere della meditazione concentrativa di aumentare la forza del segnale rilevato dall’elettroencefalografo. In soldoni, ciò si traduce in un forte aumento del focus e dell’attenzione e nell’eliminazione delle fonti di distrazioni.

A livello pratico, il buddismo cerca in questo modo di calmare la mente, per sua natura tendente a vagare e a fissarsi su mille oggetti. Questo, però, è solamente il primo stadio di un processo che si articola attraverso una serie di passaggi per portare il praticante a osservare in modo oggettivo e spassionato come i propri processi mentali e fisici lo condizionano e raggiungere in questo modo autoconsapevolezza e libertà.

Anche questo percorso, che tradizionalmente fa capo a ciò che viene definito meditazione Vipassana, è continuo oggetto di studi neuroscientifici, in particolare dalla scuola di medicina Johns Hopkins di Baltimora. I risultati? Aumento significativo delle facoltà attentive, con benefici indiscutibili in campo motorio e in termini di chiarezza mentale.

I benefici della meditazione buddista

I benefici della meditazione buddista non si fermano però all’aumento del focus e della concentrazione. Il buddismo è in effetti un pensiero molto complesso e articolato, che comprende molteplici approcci e tecniche e numerosissime scuole, da quelle che predicano il ritiro dal mondo alle scuole zen e Nichiren che, al contrario, invitano ad affrontare attivamente il piano mondano e il karma utilizzando gli strumenti che il buddismo mette a disposizione.

Oltre alla tradizionale meditazione vipassana, le differenti scuole hanno via via integrato e affinato il loro armamentario, includendo anche mantra e recitazioni dei titoli dei libri sacri, in particolare il Sutra del loto. Ricordiamo il celebre “Om mani padme hum”.

Tra i tanti benefici di queste antiche pratiche evidenziati dalla ricerca ricordiamo l’aumento delle capacità empatiche dei praticanti e il concetto di mindfulness, ossia la capacità di ascoltare i numerosi segnali che provengono dall’ambiente e dal corpo senza farsi travolgere da essi.

La conclusione che possiamo trarne è di come il cervello possa essere rimodulato dalla meditazione buddista, liberandoci o guarendoci da quelle tendenze o pose adattive che sentiamo dento e ci fanno soffrire, trasformandole da veleno in risorsa adattiva per affrontare meglio l’ambiente e conquistando piena e cosciente libertà cognitiva.

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Immagine di freepik

Autore: Marco La Rosa

Sono un web content writer, web designer e esperto di SEO e UX design. Ho scritto il libro Neurocopywriting, edito da Hoepli, dedicato all'applicazione delle neuroscienze alla comunicazione.

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