Il genocidio è uno dei più gravi crimini possibili, eppure l’opinione pubblica mostra un livello di freddezza verso atti così gravi decisamente allarmante, mentre invece la maggior parte delle persone si mostra empatica e in genere disposta a fare grandi sforzi per aiutare vittime individuali.
Il modo con cui comunichiamo il genocidio, insomma, lo storytelling, ha influenza sull’atteggiamento delle persone? Gli studi di psicologia cognitiva possono suggerirci la risposta.
L’importanza dell’attenzione e delle emozioni
Il primo punto da capire è il ruolo svolto dalle emozioni e dall’attenzione nella formazione delle nostre decisioni.
La ricerca scientifica ha mostrato, in particolare, che le risposte affettive a un evento si attivano rapidamente e automaticamente, guidate dal sistema esperienziale che cerca nella memoria eventi emotivamente simili.
Le emozioni sono, in sintesi, dei driver molto potenti che giocano un ruolo essenziale nei nostri processi decisionali. Le emozioni positive motivano azioni per replicare tali sentimenti, mentre quelle negative spingono a evitarle.
Venendo all’attenzione, essa amplifica le risposte emotive, svolgendo un ruolo tutt’altro che trascurabile nei nostri processi decisionali.
Purtroppo, l’attenzione si riduce quando viene rivolta a gruppi anziché individui, mentre invece è massima se rivolta a singoli individui.
Storytelling e comunicazione sul genocidio
Infine, lo storytelling: confrontando narrazioni del genocidio che fanno leva su cifre e numeri con altre che si basano su storie reali di individui precisi, si è scoperto che le secondo riscuotono molto più successo. Esperimenti dimostrano infatti che le persone sono più propense ad aiutare individui identificabili rispetto a gruppi anonimi.
Detto in poche parole, la personalizzazione delle vittime, attraverso volti, nomi e storie, aumenta l’empatia e la volontà di aiutare: Nicholas Kristof del New York Times è un esempio di giornalista che personalizza le sue storie per suscitare attenzione e azione contro il genocidio in Darfur.
Ciò, del resto, è conforme non solo con quanto abbiamo scritto poco sopra sul ruolo dell’attenzione, ma anche con quanto scoperto da E. H. Weber e Gustav Fechner nel XIX secolo: la nostra capacità di percepire cambiamenti in uno stimolo diminuisce rapidamente con l’aumento del suo magnitudo, principio noto come “Legge di Weber”.
Questo implica che, per notare una differenza in un grande stimolo come le cifre di un genocidio, è necessario un cambiamento significativo.
Purtroppo, la semplice rappresentazione numerica delle vite umane non riesce a trasmettere l’importanza di tali vite. La situazione migliora già presentando delle percentuali al posto dei numeri (confrontate: il 30% della popolazione è morta con: sono morte 300.000 persone su un totale di 1.000.000).
Le immagini, invece, colpiscono più profondamente, suscitando emozioni più durature e riuscendo invece a trasmettere il reale significato di tali atrocità.
Questo contrasto si evidenzia anche nel modo in cui i media coprono i disastri naturali rispetto ai genocidi. Gli eventi naturali come lo tsunami del 2004 in Asia e l’uragano Katrina nel 2005 hanno ricevuto una copertura mediatica intensa e dettagliata, che ha valorizzato il dramma delle storie personali delle vittime.
Fare storytelling, tuttavia, non è sufficiente: la narrazione, anche se emotivamente efficace, non riesce a veicolare gli aspetti razionali e quantitativi di un problema, o a indicare soluzioni.
Inoltre, le risposte emotive sono sì intense, ma anche molto brevi, e non idonee a sostenere uno sforzo prolungato nel tempo.
Per affrontare efficacemente il genocidio, in conclusione, è necessario un approccio che combini l’uso di immagini potenti e storie personali per stimolare il sistema esperienziale con una forte analisi razionale che aiuti a incanalare le emozioni suscitate in risposte costruttive e maggiormente articolate.
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Per approfondire: If I look at the mass I will never act”: Psychic numbing and genocide